Accanto alla più celebre produzione in dialetto santarcangiolese, Tonino Guerra (Santarcangelo, Forlì, 1920) ha creato qualche poesia in lingua, inclusa quella dal titolo Mio padre di recente composizione (1998). In un’unica strofa di undici versi, per lo più imparisillabi e di lunghezza superiore al settenario, l’autore fornisce un efficace ritratto della figura genitoriale: la capacità di sintesi e l’asciuttezza stilistica, già presenti in tanti suoi schizzi di personaggi popolari, scandiscono in modo incisivo le azioni abitudinarie di un’intera esistenza.


Mio padre vendeva frutta e carbone
e intanto accarezzava
un gatto che si chiamava Baruloun.
Se camminava guardava in terra
per vedere se c’era qualcosa da prender su:
un chiodo arrugginito o un laccio per le scarpe
e andava a letto col cappello in testa.
Quando sono venuto a casa
dopo un anno di prigionia in Germania
mi aspettava sulla porta col sigaro in bocca.
“Hai mangiato?” mi ha chiesto. E basta.



La prima parte è infatti incentrata sul quotidiano di quest’uomo semplice, anch’egli appartenente all’umile e genuino mondo delle campagne: le due proposizioni iniziali lo fotografano simmetricamente nell’ambito lavorativo («vendeva frutta e carbone») e nei momenti di svago, in cui manifesta con gesti concreti il suo amore per gli animali («accarezzava / un gatto che si chiamava Baruloun.»). Segue un altro breve parallelismo fra un’attività diurna ed una notturna: il camminare con lo sguardo chino al terreno, prestando attenzione all’eventuale rinvenimento di oggetti assai modesti ma comunque di una certa utilità, non solo trasmette un valore tipico della mentalità contadina, per cui nulla viene sprecato, ma può alludere anche allo stato di generale indigenza in cui versava la popolazione nel periodo bellico e nell’immediato dopoguerra; il coricarsi «col cappello in testa» appartiene ai ricordi più personali e curiosi.
A partire dal v. 8, gli imperfetti iterativi cedono il posto ai passati prossimi utilizzati per narrare un evento ben preciso, eletto ad esempio massimo per illustrare la particolare relazione che intercorreva fra padre e figlio. Nel 1944, la famiglia Guerra vive da sfollata in una casupola sulla sponda del fiume Uso; Tonino, proprio su richiesta del padre, si reca nella loro abitazione di Santarcangelo per portare qualcosa da mangiare al gatto menzionato al v. 3: viene catturato dai Tedeschi e deportato in Germania nel campo di concentramento di Troisdorf, dove inizia a scrivere le sue poesie in dialetto, con l’intento di «tenere compagnia a dei contadini romagnoli», suoi compagni di prigionia. Vi resta per circa un anno, sino ad una mattina d’agosto del 1945, quando arriva alla stazione del paese natio: il lieto fine di un’esperienza così drammatica resta indelebilmente impresso nella memoria di Tonino. In una concisa autobiografia rammenta:


Credevano fossi morto. Per non spaventare mio padre e mia madre ho impiegato un giorno a percorrere il chilometro di strada che c’era tra la stazione e casa nostra di allora. Seduto sulla sponda di un fosso mandavo qualcuno a casa ad avvertire che c’erano in Altitalia ancora dei prigionieri che tornavano. Nel pomeriggio ho deciso di farmi vivo.


In tale contesto si situa l’incontro col padre che attende sulla soglia dell’abitazione: l’accoglienza per nulla calorosa riportata nell’ultimo verso non dev’essere tuttavia fraintesa con fredda indifferenza o assenza di rapporto. Il secco quesito paterno, reso ancor più incisivo dall’inserzione del discorso diretto, rivela un atteggiamento coerente con l’azione usuale dei vv. 4-6: è una persona che mira alla concretezza ed al momento presente (l’immediata preoccupazione di sfamare il figlio), che possiede una ruvida affettuosità contadina fatta di schiette azioni più che di vane parole e di futili moine. Proseguendo il racconto in prosa della propria esistenza, l’autore si mantiene fedele a quanto espresso in poesia, ma con l’aggiunta di maggiori dettagli e di un seguito che coinvolge i due protagonisti:


Mio padre mi aspettava sulla porta di casa. Non ci eravamo mai dati né baci né strette di mano; appena dei segni. Mi fermo a quattro metri da lui per non metterlo in imbarazzo. Il babbo mi guarda a lungo stringendo il mezzo sigaro toscano in bocca, poi toglie il sigaro spento e mi chiede: “Hai mangiato?” – “Moltissimo” rispondo. Lui se ne va indaffarato verso il paese, senza girarsi neanche più indietro. Quando più tardi, circondato da parenti e paesani, siedo nella camera che chiamavamo ‘la saletta’, arriva un uomo con una piccola valigia in mano. “Cerca qualcuno?” gli chiedo. “Sono il barbiere. Suo padre mi ha detto che devo fargli la barba”. Mi tocco il viso e mi accorgo di avere la faccia con la barba di due giorni.


Una volta accertato il soddisfacimento della primaria necessità vitale, il padre dimostra di prendersi cura anche dell’aspetto esteriore del figlio, premessa per la sua reintegrazione in quella Romagna arcaica e contadina.
L’essenziale realismo si rispecchia nell’estrema asciuttezza lessicale, nella scarsità dell’aggettivazione (un solo attributo nel verso centrale), nelle qualità visive (il senso da lui nettamente prediletto). Il tono dimesso si accompagna ad una sintassi elementare, in cui prevale la paratassi ed una scansione regolare delle pause, in genere ogni due o tre versi. Fa eccezione il finale, dove, nell’arco di un solo novenario, si succedono tre forti interruzioni ad opera del punto interrogativo e di una coppia di punti fermi: un’ultima spia della caratteristica sobrietà esistenziale e linguistica.
Un simile rapporto, fondato su una scarna comunicazione e su gesti esigui ma pregevoli, è riscontrabile nella poesia del friulano Dino Menichini (Stupizza, Udine, 1921 – Udine, 1978), che inizia con Quest’uomo che con tenere e soavi, tratta da La cieca ostinazione: due lunghi periodi di endecasillabi, con l’eccezione di tre settenari nell’ultima parte, si dipanano attraverso quattro strofe diseguali, ma che si aprono tutte con un preciso riferimento al padre («Quest’uomo», «Il tuo nome», «tu», «padre mio buono»).


Quest’uomo che con tenere e soavi
iridi m’accarezza (la sua mano
non osa, così dura, rincallita
dalla pala che getta nella bocca
del forno manganese ferro ghisa
silicio, e n’esce acciaio),
questo mite
uomo che con trepide e pungenti
pupille mi richiama dentro un cerchio
dove Terni dilata le sue mura
ed è patria dell’uomo che fatica,
dove il lungo lavoro non è più
miseria o pena o vana aspirazione
ma santità degli uomini,
è mio padre.
Il tuo nome non era Menichini
Giovanni, era soltanto la medaglia
centocinquantasette alla sezione
Martin, stabilimenti siderurgici,
fonditore di turno a lire cinque
virgola zero quattro paga oraria:
uno fra mille e mille, una sequela
di timbri al cartellino di presenza,
un foglio di spettanze e trattenute,
tu che nel tuo volto sei incorrotta
immagine di Dio, e attento scruti
la tua mano callosa che non sa
carezze, ma poi gaio
all’improvviso «Vedi?, la mia mano
è curva – dici – ma la schiena è dritta»,
e certo non sospetti
di definire un’esistenza, chiudere
un preciso ed austero ammonimento
(o un rimprovero, forse),
padre mio buono, a me tanto dissimile
quanto più cerco in me di somigliarti.


La famiglia, proveniente dall’alta valle del fiume Natisone, sulla linea del confine italosloveno, appartiene allo schietto ed arcaico mondo contadino-montanaro; per motivi di lavoro del padre, tutti i componenti si trasferiscono nell’umbra cittadina di Terni, senza però dimenticare l’amore verso la loro terra d’origine ed i valori da essa appresi. Proprio sull’ambito professionale s’incentra il ritratto paterno: fonditore di turno in uno stabilimento siderurgico, non subisce tuttavia l’alienazione che può facilmente scaturire da un impiego ripetitivo e dai ritmi frenetici (si pensi al celebre film di Charlie Chaplin Tempi moderni, 1936). L’arida società derivante da un rapido processo d’industrializzazione non riesce a fagocitarlo ed a sprofondarlo totalmente nell’anonimato («Il tuo nome non era Menichini / Giovanni»), ma alla «medaglia centocinquantasette» egli mette innanzi ed insegna al figlio il concetto nobilitante di lavoro come «santità degli uomini», alla «mano [...] curva» oppone una «schiena [...] dritta».
La messa a fuoco di dettagli corporei, che dona coesione all’intero testo, guida il lettore alla comprensione del legame fra i due: la mano dell’adulto, «così dura, rincallita / dalla pala che getta nella bocca / del forno manganese ferro ghisa / silicio, e n’esce acciaio», «non osa » e «non sa carezze»; però lo sguardo dalle «tenere e soavi iridi» e dalle «trepide e pungenti pupille» trasmette nitidamente tutta l’amorevolezza verso il proprio ragazzo. La vastità e profondità del sentimento, contrapposta alla parsimonia di azioni esteriori, nel distico finale conducono il poeta a riconoscerne il valore ed a rilevare la difficoltà di seguirne l’esempio:


padre mio buono, a me tanto dissimile
quanto più cerco in me di somigliarti.



La scelta di versi dalla metrica tradizionale (quasi tutti endecasillabi, di cui uno sdrucciolo, due tronchi ed un paio franti) prevale decisamente sui legami fonici (solo qualche assonanza ed una coppia di rime ‘casuali’) e sull’articolazione sintattica: si può notare una densità altissima di enjambements, dovuti anche alle lunghe proposizioni spesso intervallate da semplici virgole. L’abbondanza di subordinate nella prima strofa mira a creare un clima di suspense riguardo all’identificazione del generico «uomo» dell’incipit e del «mite / uomo» (vv. 6-7) inserito in un chiaro parallelismo leggermente variato (vv. 1-2 e 6-8): la curiosità verrà soddisfatta solo a fine periodo («è mio padre»).
Nella seconda strofa si verifica un mutamento ritmico, in linea col passaggio dalla terza alla seconda persona singolare per rivolgersi al padre: la sintassi quasi esclusivamente nominale, che riporta sostantivi propri e numerali, instaura una successione martellante di accenti, forse a sottolineare i tempi ossessivamente regolari imposti agli operai dalla macchina. Il tono varia e si addolcisce nella sequenza finale, grazie anche all’inserzione del discorso diretto per il prezioso ammonimento paterno.

(tratto dalla tesi di Chiara Maria Verderi)