La Scapigliatura si sviluppa come segno di frattura tra il vecchio mondo romantico e un nuovo coacervo di realtà che questa generazione di artisti per lo più unifica nel concetto di scienza, un termine che cela sia la condizione socio-economica dell'Italia borghese postunitaria, sia il fantasma di una ideologia positivistica percepita come una possibilità di interpretazione e di trasformazione del reale. Gli scapigliati introducono nel mondo sia un principio di degradazione (il suo essere borghese che trasforma la realtà in merce), sia un principio di onnipotenza cognitiva e operativa che permette di verificare, oltre le apparenze della realtà, la sua mercificazione, il suo ridursi a rifiuto, e, forse, di riscattarla da questa condizione.

Ma le potenzialità della scienza mettono in crisi il tradizionale rapporto tra l'intellettuale e il mondo, trasformando un binomio essenzialmente sciolto dagli impacci della prassi sociale in un trinomio poeta-scienziato-realtà, che è reso inquietante e disarmonico dalla presunta onnipotenza cognitiva e operativa dello scienziato, la quale, nella visione scapigliata, colora di luce ambigua il privilegio contemplativo dello scrittore: l'ascesi dedicata alla Bellezza ideale svela l'impotenza nei confronti dell'orrore reale.
La realtà è concepita dallo scrittore come fosse una femminilità spinta verso la propria condizione di ente degradato, di oggetto, di rifiuto; uno status cadaverico che la sottopone a un gesto di anatomia o la inserisce nella prospettiva di un problematico riscatto. Lo scienziato interpreta il ruolo dell'anatomista, colui che riduce a rifiuto, oppure quello dell'imbalsamatore, colui che tenta di riscattare il rifiuto eternandone in belle e orride forme la parvenza superficiale. Il poeta, nel nuovo confronto tra realtà e scienza, è l'osservatore perplesso e deluso, il voyeur, costretto all'impotenza di uno scacco subito sul margine che separa il rifiuto dall'apparenza, il corpo dalla pelle, il reale dall'ideale.
La vaga ideologia degli scapigliati tratteggia un presente violento in cui lo scienziato-anatomista contemporaneo sottrae al poeta il godimento del proprio amore per un reale idealizzato.
L'impersonalità del gesto scientifico non fa distinzione tra il corpo della tisica «peccatrice» e il corpo della Vergine. Ma l'artista, disposto, nel primo caso, a scoprire nel medico un compagno di operazioni dai risvolti ironici, lo identifica, nel secondo, quale avversario della propria funzione di sacerdote dell'ideale. Il gioco autoparodistico lascia allora il posto allo sdegno e allo sgomento. La commedia del presente trascolora nella tragedia del letterato respinto dal presente.
Nella formulazione di questa poetica le immagini di morte sono metafora di un programma di azione letteraria che vorrebbe essere provocatorio. L'autofigurazione luttuosa della poetica scapigliata sembra consumarsi disegnando una sinistra vicenda emblematica in cui la contemporaneità è ridotta a spazio cimiteriale: coacervo di sepolcri dove cadaveri ancora flebilmente animati esprimono un anelito alla resurrezione che trova pallido riscontro nell'aleggiare del fuoco fatuo della poesia. Spezzare i vincoli del sepolcro, restituire felicità di danza ai morti, appare compito dell'arte. Ma il poeta è esso stesso rifiuto del «secolo delle macchine», cadavere, ma non vittima passiva, bensì suicida che rivendica l'emarginazione patita a opera della società quale privilegio di volontario disprezzo nei confronti della stessa. Il suicidio, dunque, come sacrificio che può permettergli di realizzare ancora la sua funzione magica, sebbene significhi rinunciare al Bello per abbracciare l'Orrido, farsi carnefici di se stessi e del presente, penetrare oltre la pelle del mondo per scoprirvi «vermi» e «aborti», giocare con i simboli di morte sulla giostra dell'eversione culturale. Quasi in risposta al momento storico postunitario, la poetica scapigliata, attraverso metafore e fantasie macabre, dà vita a un rituale di iniziazione alla morte che si incentra intorno all'immagine cadaverica del rifiuto umano, che viene ostentatamente e provocatoriamente esibito affinchè l'uomo contemporaneo, cadavere vivente di una società mercificata, si riappropri di una pietas che impropriamente egli ormai tributa solo al suo simile ridotto a rifiuto, quando dovrebbe tributargliela mentre è ancora vivo.
Anche nelle poesie di Tarchetti spicca il gusto per le immagini sepolcrali, e nei racconti e in Fosca i simboli e le vicende funeree si strutturano in avventure e suggestioni psicologiche complesse. Anche Tarchetti intende il cadavere come rifiuto umano, oggetto di ipocriti giochi sentimentali; anche Tarchetti gioca provocatoriamente con quei simboli sepolcrali con cui ama rappresentare l'intera società contemporanea. La desublimazione sentimentale del cadavere, l'assunzione dello scheletro a metafora di «questo mondo», la figurazione del poeta quale «iena» che si pasce di carogne sembrano costituire i vertici essenziali della poetica di Tarchetti (leggi Pensieri, in Tutte le opere, vol. II, p. 492). L'insorgere dello scheletro durante l'atto d'amore costituisce un'ossessione tematica del poeta; una vera e propria mania macabra che culmina nel ritratto di Fosca, la donna orrida non perché brutta, ma perché in lei la carne viva maschera l'immagine della morte.
Al di là dell'intenzione programmatica di incidere la carne del presente per svelarne il residuo scheletrico, al di là della speranza di ridestare un mondo sepolcrale attraverso l'esibizione del teschio o della putrefazione in atto, l'immagine della morte affiora, nell'opera tarchettiana, come epifania inquietante che sfugge all'esorcismo del poeta. Qui non c'è uno scheletro che si nasconde dietro la bella forma, ma prorompe dalle profondità in cui prima viveva, tende la carne e minaccia di uscire oltre la fragile barriera che essa oppone. Anatomia alla rovescia, dunque.
Esiste un nesso che lega figurazione femminile e parvenza macabra. Credo sia utile ricordare come, nel personaggio di Fosca, l'affiorare dello scheletro si faccia segno delle «malattie» patite dalla protagonista. Secondo quanto dirà il suo medico, ella «è una specie di fenomeno, una collezione ambulante di tutti i mali possibili». In realtà, Fosca non è malata. L'«isteria» diagnosticata si risolve in comportamenti sessuali devianti rispetto alle norme dell'erotismo borghese: lesbismo, sadismo, masochismo, attivismo sfrenato. E soprattutto quest'ultimo segno, a mio parere, pur se meno noir degli altri, ossessiona Tarchetti. Fosca incalza Giorgio con una profferta d'amore tanto insistente da trasformarsi in destino inevitabile e ripugnante. La persecuzione operata dal suo «affetto» finisce davvero con l'essere «la sensazione di un corpo stringente e pesante come la creta» (cfr. Pensieri, in Tutte le opere, vol. II, p. 492). Per questo assistiamo alla trasfigurazione della donna in scheletro animato, immagine di morte che rimanda la mia memoria non tanto all'iconografia sepocrale tardo-romantica, quanto alla tradizione mitica e letteraria della donna-mantide, inquietante emblema di sessualità femminile che affascina l'uomo per condurlo, terrorizzato, a un amplesso dove l'essere amati corrisponde all'essere distrutti, in analogia con la mantide, appunto,che spesso divora il maschio dopo l'accoppiamento. Il riferimento non è esplicito nella scrittura di Tarchetti, eppure lo scrittore stabilisce inconsciamente l'associazione tra la donna, lo scheletro e un animale inferiore.
Giorgio conosce la sua orrida mantide grazie alla descrizione che ne fa il dottore (sicchè Tarchetti pone, tra la donna scheletro e il suo renitente "innamorato", la mediazione della scienza); e accondiscende a frequentarla solo perché questi lo convince della sua funzione terapeutica insostituibile. Emblematica è la resa di Giorgio all'amore di Fosca, quando il giovane, per raggiungere la camera della donna, si accorda con il medico per usufruire del passaggio segreto attraverso il suo studio.
Al fosco abbozzato da Tarchetti in Fosca fa da contraltare Clara, accanto alla fanciulla-scheletro appare un idillico angelo femminile. Tuttavia, l'angelo non è meno rovinoso della morte: Clara, dal canto suo, "distrugge" Giorgio rifiutando il loro idillio per tornare alla famiglia; allude sia all'ideale del poeta sia alla necessaria degradazione di questo ideale corrotto dalla realtà borghese dell'interesse economico, dello scandalo dell'adulterio che non si può accettare né imporre. Meglio, allora, l'orrore di una donna-scheletro veramente devota. Se Clara è l'Idea ancora allettante ma ormai fonte di delusione, il Bello divenuto Orrido, Fosca, l'inquietante femminilità nevrotica, è il Vero, cui la scienza borghese conferisce garanzia di autenticità ma che l'arte non può abbracciare se non con riluttanza.
L'atteggiamento di Giorgio nei confronti della donna-scheletro è parallelo alla posizione di Tarchetti verso il rozzo materialismo divulgato dalla e nella cultura italiana a lui contemporanea. La nuova realtà dischiusa dalla scienza si pone come negazione dell'antico ideale poetico. L'immagine femminile della morte che ne costituisce l'emblema non potrà, allora, essere ostentata polemicamente contro il «secolo morto», ma diverrà l'orribile oggetto-soggetto di un atto di necrofilia, celata, nel testo, dalla preterizione.
Il contatto dello scrittore con un simile "reale", lungi dal porsi come esorcismo contro le mistificazioni del «sepolcro» contemporaneo, si esaurisce in un piccolo fuoco dove bruciano i grandi sentimenti poetici del passato, spezzati per lo scontro con un mondo la cui vera essenza è il peso e il movimento meccanico dello scheletro, sicchè il poeta potrebbe ancora affermare il proprio dominio sull'Ideale solo a condizione di ridurre quest'ultimo a cadavere. È la situazione illustrata da uno dei racconti di Amore nell'arte, Bouvard. E Bouvard, il musicista, è, appunto, l'uomo dell'arte, colui che persegue il proprio sogno di affermazione sul reale. Il protagonista del racconto è, in realtà, il poeta scapigliato. Deforme, in quanto rifiuto del presente, egli si vendica del presente che, ancora una volta nelle vesti di una fanciulla, lo respinge, progettando di possederne le spoglie, dopo che il destino lo ha ridotto a parvenza cadaverica. Quello che, in Fosca, era cedimento allo scheletro che emerge dal reale, in Bouvard diviene appropriazione di un cadavere immaginato vivo. La paura della donna troppo attiva cede il passo alla profanazione della donna iperbolicamente passiva. La necrofilia riluttante del romanzo si trasforma in necrofilia negromantica, grazie all'intervento di un ideale d'arte che non solo allontana da sé l'incubo odiato e amato della scienza, ma sembra superare i sogni dello scienziato-imbalsamatore approdando alla promessa della resurrezione.
Il miracolo che non si compie è l'affermazione, nel presente, della superiorità dell'arte sull'ideologia e sulla complessità del nuovo mondo postunitario. L'Ideale è reso cadavere e il Reale ha le parvenze dello scheletro. Il solo esito praticabile è il connubio nascosto tra lo scrittore e il suo ambiente, vissuto con saggezza da Fosca e con riluttanza da Giorgio.
La lezione della donna-scheletro, la sua resa a un riduttivo principio di realtà che spoglia il mondo di certe sue "immagini smisurate", sembra tracciare anche il vero cammino evolutivo dell'immagine della morte nella scrittura scapigliata, metafora del presente e di una negazione eversiva della cultura contemporanea, sempre più ossessione, nell'esperienza tarchettiana (e non solo), della duplicità del reale e sempre meno epifania di una contestazione del reale. Il progetto di un rito negromantico destinato alla trasfigurazione del presente cede a una conciliante necrofilia; e il connubio tra il poeta e le sua metafora di morte si consuma nel rifiuto della possibilità di padroneggiare polemicamente e criticamente questa metafora, si consuma nel silenzio della preterizione. Ma il vuoto espressivo non si converte in espressione del vuoto: nel vuoto espressivo l'orrore della necrofilia si fa scenografia macabra (penso allo studio del dottore in Fosca) o stimolo al fantasticare morboso del lettore.

Mara Leogrande