In varie occasioni Ugo Foscolo scrisse saggi critici su molti dei nostri scrittori e su periodi o generi letterari dalle origini ai giorni suoi, caratterizzati purtroppo da frammentarietà, squilibri, presenza di redazioni parallele – nessuna delle quali definitive – disordine dei suoi autografi e scarsa affidabilità delle traduzioni inglesi, spesso unici esemplari trasmessi, che creano difficoltà di redazione e quindi di lettura e di scelta, e che a tutt’oggi non hanno trovato nemmeno nell’Edizione nazionale delle sue opere una compiuta sistemazione¹.
Lo stesso Foscolo, però, già molto tempo prima che le vicende del suo esilio inglese lo spingessero a farsi per professione da poeta a storico e critico letterario, vagheggiò in più di un’occasione l’idea, anzi il preciso progetto, di scrivere non solo singoli saggi, ma una vera e propria storia della letteratura italiana.
Non si possono ignorare i consapevoli disegni di redazione di una storia letteraria. Il 12 dicembre 1808, scrivendo al Monti per illustrargli la propria attività poetica, egli citava fra gli altri suoi carmi o inni un suo Alceo, «o la storia della letteratura in Italia dalla rovina dell’impero d’oriente ai di’ nostri», e inoltre «un ultimo inno [...] intitolato a Pindaro», dove intendeva trattare «della divinità della poesia lirica, e delle virtù e dei vizi dei poeti che la maneggiarono». La prima redazio¬ne dell’Alceo, che sarà poi inserito nelle Grazie (inno II, parte II), risale forse al 1806: di quell’anno è dunque il suo primo progetto di una storia letteraria e la definizione della sua vocazione critica.
Ma una prima reale traduzione in pratica di questa sua vocazione fu per lui la cattedra di eloquenza all'università di Pavia, assegnatagli il 24 marzo 1808 e subito soppressa ancor prima dell’inizio dell’anno accademico (Napoleone riteneva pericolosamente rivoluzionarie le scienze umane e sociali).
Con questa sua carica di professore d’eloquenza il Foscolo definisce una volta per tutte la sua intenzione di divenire critico e storico della letteratura, e si propone concretamente un piano di lavoro da sviluppare, del quale dà in qualche modo notizia ai suoi amici.
Quando cominciavano appena a trapelare le prime voci sulla soppressione della sua e di altre cattedre, il 5 dicembre 1808, egli scriveva al Monti di avere l’intenzione di

discorrere filosoficamente ed eloquentemente la storia della letteratura di tutti i secoli e di tutti i popoli, su le teorie de’ maestri e sugli esempi de’ grandi scrittori; e di applicare quindi la storia, i principi, e la pratica alla indole delle facoltà dell’uomo, e finalmente al carattere della letteratura e della lingua italiana

che è lo schema, appunto, di quella che sarà l'orazione inaugurale e il programma delle lezioni.
Nonostante la soppressione della cattedra, gli fu consentito, ed egli volle, in qualche modo svolgere il suo corso: il 22 gennaio 1809 lesse l’orazione inaugurale Sull’origine e l’ufficio della letteratura e, in due momenti separati, tenne cinque lezioni (la prima i primi giorni di febbraio, Sui principi generali della letteratura; la seconda il 5 febbraio, Sulla lingua; e infine le tre ultime il 18 maggio e il 5 e 6 giugno, Sulla morale letteraria, relative alla letteratura rivolta rispettivamente al lucro o alla gloria o all’esercizio delle facoltà intellettuali).
Non c’è dubbio che l’alto ammonimento, da lui ripetuto due volte nell’orazione inaugurale: «O Italiani, io vi esorto alle storie», nascondesse anche il suo proposito personale, già espresso al Monti; egli parla, infatti, come chi dai trionfi oratori e poetici volesse ormai passare a quest’altro campo letterario:

Io vi esorto alle storie, perché angusta è l’arena degli oratori; e chi omai può contendervi la poetica palma? Ma nelle storie tutta si dispiega la nobiltà dello stile, tutti gli effetti delle virtù, tutto l’incanto della poesia.

Del resto, con le lezioni successive egli si assumeva appunto il compito di svolgere filosoficamente la sua materia storico-letteraria:

Dividerò la letteratura in poeti, storici ed oratori; e questi tre generi ciascheduno nelle sue specie; all’esame di ogni specie ridurrò tutti gli individui...; e l’esame avrà per fondamento la storia. Ciascheduna di queste lezioni storiche avrà in seguito le sue dimostrazioni... La storia di ogni specie comprenderà gli autori celebri di ogni tempo ed ogni nazione2

È questo il suo primo ambizioso programma di storia della letteratura. Egli trasformò, dunque, consapevolmente, una cattedra di eloquenza o di oratoria in una cattedra di storia della letteratura, ma non poté svolgere quel suo «corso delle lezioni storiche» e, nella mancanza di prospettive accademiche, vi sostituì, come ultimo addio ai suoi allievi, le tre lezioni, alfieriane nelle idee e negli accenti, sulla morale letteraria.
A questo corso universitario del 1809, e alle riflessioni e ai propositi di cui fu occasione, si dovrà ricorrere per rintracciare la prima ispirazione di quella «storia letteraria», progettata più tardi dal Foscolo nell’esilio inglese.
L’anno successivo, esaurita quella entusiasmante e fugace esperienza, nella quale dovette sentirsi professore nel senso più alto della parola, lo troviamo nella sua casa, circondato ancora da alcuni di quei giovani, che «con le lagrime agli occhi» lo avevano ascoltato parlare dalla sua cattedra, e i cui nomi passeranno anch’essi in varia misura alla storia letteraria (Pietro Borsieri, Luigi e Silvio Pellico, Michele Leoni, Giulio Rasori); e con loro lo vediamo discutere o addirittura «dettare a pezzi durante una convalescenza» una serie di articoli di critica letteraria, nei quali si mettevano in pratica quei suoi insegnamenti universitari e, sia pur vagamente e solo su temi contemporanei, si cominciavano ad attuare i suoi progetti storico-letterari.
Si trattò di articoli vari, sui traduttori dell’Odissea, su Caro e Alfieri traduttori di Virgilio, e poi su alcuni contemporanei.
Ma già il primo di questi articoli dette luogo a quella «eunucomachia di letterati», che lo indusse a distaccarsi dalle beghe e dalle polemiche contemporanee e ad affrontare studi più severi e remoti, più rispondenti ai suoi progetti pavesi.
In questo nuovo spirito egli aveva «architettato il piano di un’opera la quale domanda molti anni e molti studi e piena libertà di pensiero e di vita» (Lettera al Nota, 8 gennaio 1811): si trattava appunto di una ricerca di storia civile e letteraria, che da una progettata «lunga vita di Niccolò Machiavelli» gli si veniva ampliando a una «storia di Firenze dal secolo X», alla quale poi decideva addirittura di assegnare per termine «tutto il XVIII» (Lettera al Brunetti, 23 marzo 1811). Un progetto anche questo interrotto, e di cui non ci resteranno che i Frammenti sul Machiavelli.
Dopo la grande crisi politica che portò al crollo del predominio francese e, per il Foscolo, alla scelta dell’esilio, si può seguire il ripresentarsi in lui dell’antico progetto e il suo successivo determinarsi.
Già in Svizzera, quando, «per compiacere a un buon letterato tedesco» (G.E. Meister. Cfr. Lettera alla Donna gentile, 30 dicembre 1815), disegnò, sia pure occasionalmente, i sintetici Vestigi della storia del sonetto italiano, egli appare impegnato in quella che potrebbe essere stata una parte del suo progetto. Più tardi, nella sede definitiva del suo esilio, scrisse e progettò, sotto forma di Lettere dall’Inghilterra, una serie di saggi di costume e di varia letteratura, nella cui prefazione Al lettore, datata 22 dicembre 1817, scriveva:

[...] onde vedendo io le doti native della mia lingua indegnamente ne¬gletta, mi sono sin dalla mia adolescenza studiato di giovarmene, e tanto che oggimai, parmi, n’abuso. Se non che di questo argomento discorro storicamente in una lettera, e la vedrai sotto il titolo Epoche della lingua italiana3.

Di questa lettera non scrisse che un frammento, dove afferma che «la letteratura italiana ha delle epoche fisse di cambiamento quasi subitanee», e, dopo alcune considerazioni, ne indica le prime tre (dal 1200 al 1321, dal 1321 al 1470, e a partire dal 1470).
In questo momento egli viene dunque meditando di trasferire nella forma, allora di moda, di lettere indirizzate a corrispondenti congeniali alle varie materie trattate, anche l’antico progetto storico e letterario; e ha già in mente il titolo, che sarà poi effettivamente assegnato all’opera, a cui si accingerà cinque o sei anni più tardi anche se, in realtà, qualsiasi cosa egli scri¬vesse allora, lo faceva pensando a questo programma. All’inizio del Saggio sulla letteratura italiana contemporanea, scritto assai rapidamente tra il 25 marzo e il 16 aprile 1818 per conto del Hobhouse, mostrava di aver ben salda in mente e di esserne fiero, l’ipotesi di una storia della letteratura italiana per epoche; alludendo tacitamente in terza persona a se stesso, egli scriveva infatti che

è riuscito ai critici italiani d’indicare almeno dieci epoche in cui la letteratura assunse caratteristiche, o vogliano dire fattezze, del tutto distinte da quelle di ogni altro an-teriore o posteriore periodo4

Sempre in quegli stessi mesi doveva aver concepito come primi possibili capitoli di una storia letteraria più completa i suoi due articoli su Dante, che veniva scrivendo appunto tra l’agosto 1817 e il febbraio 1818 per 1’«Edinburgh Review»; non per nulla il direttore della rivista si compiaceva con lui per l’intenzione manifestata «di continuare le considerazioni sulla letteratura italiana, proseguendone la storia fino ai tempi più recenti» (Lettera del Jeffrey, 8 maggio 1818).
Qualche mese più tardi questo programma pare meglio definirsi nella sua mente, se non nella realtà: scrivendo infatti a Silvio Pellico, gli parlava di un contratto «con certi librai inglesi», per una collezione di classici italiani, col testo in italiano e l’introduzione, le vite e i commenti in inglese, e aggiungeva: «... in guisa che da una ventina di autori, e da quanto scriverò intorno ad essi risulti un Corso di letteratura italiana per gl’Inglesi» (30 settembre 1818).
Ebbene, queste «epoche» (o questo «corso») saranno effettivamente, nel maggio-giugno 1823, oggetto di sue lezioni «non in un’università, che sarebbe un onore, bensì in una specie di teatro», come scrive alla sorella Rubina (4 ottobre 1823) con chiaro rimpianto per la sua cattedra nell’università di Pavia e con probabile rammarico per la vanamente sperata cattedra all’università di Oxford, che in Italia già gli assegnavano.
Queste lezioni costituiranno un po’ il canovaccio o la trama intorno a cui si intesseranno i vari saggi, maggiori e minori, scritti prima o dopo di esse.
Anche ad esse bisognerà dunque far ricorso, come alle lezioni pavesi, per meglio comprendere e disporre la materia di tutti gli altri suoi saggi nel disegno, il più ordinato e organico possibile, di quella storia della letteratura italiana, a cui egli sempre pensò e che non poté mai condurre a termine.
Nell’indagare il contenuto dell’interpretazione foscoliana della letteratura, non basta risalire, di là dalle fondamentali lezioni pavesi, a quei due inni progettati e mai portati a definitivo compimento che sono il Pindaro sulla poesia lirica e l’Alceo come storia letteraria, dei quali il Foscolo parlava proprio mentre stava lavorando alla sua orazione inaugurale; occorre rifarsi anche più indietro nel tempo, al Commento alla Chioma di Berenice, del 1803, dove, se non c’è ancora il proposito di una storia, già appaiono alcune delle costanti della sua critica.
Nella convinzione che «i poeti traggono qualità dai tempi», il commento propone significativamente il tema del compito sociale della poesia, in polemica contro la poesia contemporanea, che è «vuoto suono», ammonisce che la poesia deve «per istituto» cantare memorabili storie, traendo dalla società le passioni e dalla religione il meraviglioso, che la distingue dalle astrattezze «de’ sillogismi e de’ numeri», cioè della filosofia e delle scienze5.
Più tardi, il Pindaro, nel progetto comunicato al Monti, ribadirà «la divinità della poesia lirica». E sono proprio questi i motivi che, con molto maggior vigore e precisione, saranno sviluppati nell’orazione inaugurale.
Nell’Alceo, poi, compariranno interpretazioni storiche, che saranno in parte riprese, non senza variazioni anche significative, dalle successive lezioni pavesi e londinesi.
In particolare, si esalta la letteratura del Rinascimento non solo come erede della grande letteratura greca, ma anche come inizio e momento centrale della letteratura italiana.
Importa comunque sottolineare che le idee delle lezioni pavesi e dei successivi saggi e lezioni londinesi, così come il programma stesso di una storia letteraria, non germogliano improvvise nel Foscolo, bensì sono il frutto di un lungo sentire che, sotto lo stimolo di occasioni particolarissime, si organizza infine in una meditata riflessione. In esse si rilevano una ormai matura concezione del compito della letteratura e dei suoi sviluppi storici.



Note:

1 I rinvii nel testo rimandano all’Edizione nazionale delle opere di Ugo Foscolo, Le Monnier, Firenze 1933, prevista in 22 volumi (qui E.N.), e alle Opere edite e postume di Ugo Foscolo, Le Monnier, Firenze 1810-62, a cura di F. S. Orlandini ed E. Mayer, in 11 volumi, più un 12° aggiunto nel 1890 a cura di L. Chiarini (qui O.M.).
2 E.N., VII, 73-74.
3 E.N., V, 245-46.
4 E.N., XI, 1, 491.
5 Commento, Discorso IV, O.M., 264-65 e 271.