Aprire gli occhi e volgere lo sguardo verso ciò che ci circonda è l’ atto che ognuno di noi compie in ogni istante della propria vita. I nostri occhi si volgono sempre da una parte ad un’ altra a seconda di ciò che vogliamo, o dobbiamo, guardare. A volte guardiamo intensamente le cose che ci stanno intorno, quali elementi costituenti il nostro mondo circostante, mentre altre volte ci limitiamo a prendere una mera consapevolezza della presenza di certi oggetti, di diversa o uguale natura, collocati all’ interno di ciò che stiamo guardando – siano essi case, strade, alberi, animali, persone ecc. – funzionali all’ organizzazione del proprio agire: se, ad esempio, camminando, incrociamo qualcuno che conosciamo e che mai avremmo voluto incontrare volgiamo lo sguardo da un’ altra parte, oppure cambiamo il nostro percorso, in modo da evitarla. Agendo in tal guisa stiamo cercando sia di evitare il confronto sia tentiamo di evitare di cadere sotto lo sguardo della persona che ci viene incontro, ossia sottrarsi allo sguardo altrui per far si che esso non si imponga su di noi, dominandoci, e dal quale non vi è scampo; distogliendo lo sguardo crediamo di poterci liberare dalla dominazione dello sguardo altrui che, tuttavia, pur non guardandolo, continuiamo a percepire su di noi, quasi volesse marchiarci. Pur potendo, in qualche modo, scappare da un luogo o da una situazione particolare, o da una persona, non possiamo in alcun modo evadere dallo sguardo altrui, così come gli altri loro volta non possono sottrarsi al nostro sguardo. Lo schiavo privato da qualsiasi sorta di libertà può, tuttavia, imporre il proprio dominio sul padrone nel non distogliere da esso il proprio sguardo.

Distogliere lo sguardo da qualcosa implica la visione di un’ altra cosa. Inevitabilmente, a conseguenza di ciò, la nostra visione cambia dal momento che non stiamo più guardando ciò che prima si palesava di fronte ai nostri occhi. Ciò vale anche nel caso in cui si decida di chiudere gli occhi, in quanto anche il buio, la cui oscurità immediatamente ci avvolge non appena ricopriamo le pupille con le palpebre, è pur sempre un «vedere», seppure attraverso una modalità particolare rispetto al senso ordinario che si attribuisce
a tale termine, giacché realizziamo una visione mediante il «non vedere». Il «non vedere», o vedere il nulla, è sempre un vedere qualcosa, anzi è un vedere qualcosa di determinato dal momento che il buio è il solo ed unico elemento che cade nella nostra visione; non vi è altro nel buio che la nerezza, l’ oscurità nella sua più pura ed immediata evidenza. In un primo momento l’ atto di chiudere gli occhi può apparire come la fine brutale di ogni possibilità di cogliere una visione reale, quasi sia esso un ritagliarsi fuori dall’ esistenza; come se chiudendo gli occhi fosse possibile uscire, anche per pochi e fuggevoli istanti, dall’ oppressione della realtà che non cessa mai di dominare ed imporsi sulle nostre vite. Questo «chiudere gli occhi» ci trascina nel buio rassicurante e pacato, dove la realtà perde ogni suo potere ne può in alcun modo raggiungerci. In effetti è proprio questa la funzione primaria dell’ atto di chiudere gli occhi, ossia tagliare ogni contatto col reale, porsi al di fuori di esso evitando di guardarlo direttamente; negando a qualcosa la possibilità di essere vista crediamo ingenuamente di negarle, di conseguenza, una qualsiasi sorta d’ esistenza. Se qualcosa non viene vista allora non esiste.

Se per molti aspetti questo segna la fuoriuscita dal mondo reale, a partire dall’ atto di chiudere gli occhi si può collocare l’ inizio di un inabissamento in un mondo irreale, ossia in un mondo proprio e personale che noi soli, considerati singolarmente, percepiamo all’ interno del buio. L’ ingresso in un mondo irreale, un mondo che trova la propria linfa vitale dal desiderio degli individui di scappare dalla realtà che opprime e dagli eventi che ci perseguitano in ogni istante è possibile solo nel momento in cui si chiudono gli occhi, ossia nell’ istante in cui neghiamo ogni possibilità alle cose circostanti di essere captate visibilmente, dunque di esistere. Il mondo dell’ immaginario e dell’ irreale comincia a costruirsi dal buio, radicando le sua fondamenta nell’ oscurità infusa dagli occhi chiusi. Ogni qualvolta ci dirigiamo verso il mondo dell’irreale, esclusivo ed unico per ciascuno, dimorandovi per qualche istante, si compie quella fuga dalla realtà che ci rinfranca e ci rasserena, ossia che ci illude che la realtà fuori (che ci attende) non esista. Quando, inevitabilmente, facciamo ritorno alla realtà riaprendo gli occhi, si ha la sensazione di stare meglio e di poter affrontare con una ritrovata serenità ciò che avevamo lasciato in sospeso.

L’ espediente di chiudere gli occhi può rappresentare un modo efficace di uscire dalla realtà, ma non è l’unico a permetterlo. La fuga dalla realtà e la corsa inarrestabile al mondo dell’ immaginario, senza il quale vivere nella realtà sarebbe impossibile da sopportare, è possibile anche quando si decide di immergersi completamente tra le note di una musica che ci delizia, tale che ci smembriamo in essa diventandone parte; quando la trama di un libro o di un film ci assorbe a tal punto che sembra viverla in prima persona, quasi come se la vita vissuta fino ad allora non avesse mai avuto luogo. Un’ efficace illusione di fuggire dalla realtà si attua quando usciamo di casa e ci incamminiamo per le strade senza prefiggersi una meta.
Camminare liberamente senza una meta equivale a scappare, o credere di farlo, dal luogo nel quale ci troviamo, in quanto spostarsi o collocarsi fuori fisicamente dallo spazio a noi circostante, come se tutta la realtà fosse in esso concentrata. Cambiare luogo è una fuga dalla realtà verso l’ irrealtà che si compie per mezzo di un’ evasione fisica. Il paesaggio, inteso quale mondo che a partire dalla sguardo si estende ma che non riesce a su perare i limiti posti dallo sguardo stesso, ci permette di compiere questo distacco dalla realtà, evocando in noi sentimenti e sensazioni diversi a seconda degli elementi che lo costituiscono. Al di là di una montagna rocciosa o del mare sconfinato, che precludono la vista di qualsiasi altra cosa, potrà benissimo trovarsi l’ Infinito, inteso quale paesaggio non definito ed assolutamente grande, la cui visioneculmina nella sublimità di un sentimento estetico nel suo senso proprio: la grandezza impossibile ed il desiderio infinito di essa da cogliere pienamente, rispetto a cui, tuttavia, siamo consapevoli dell’ immensità che le appartiene.

Questo sentimento dell’ infinito viene meravigliosamente espresso da Leopardi, che in più di un’ occasione si avvicina a dire l’ indicibile nel suo moto convulso verso l’ estetica del sublime. L’ immagine più viva e più intensa di questa sublimità estetica, in cui il desiderio di cogliere l’ infinito si manifesta nella sua nudità più totale, la troviamo nell’ idillio del 1819 L’ Infinito (G. LEOPARDI, L’Infinito, in Canti, 1819, Feltrinelli Editore); la classificazione di questo componimento come idillio si presta a sottolineare con forza maggiore il sentimento estetico da esso evocato, dove con “idilli” Leopardi intendeva «componimenti esprimenti situazioni, affezioni, avventure storiche del mio animo.» (G. LEOPARDI, Disegni letterari, XII, 1828, BUR).
Il componimento giovanile costituisce un puro canto sostenuto da un processo intellettuale, da un moto dell’ esperienza interiore, la cui genesi è «La cagione stessa, cioè il desiderio dell’ infinito, perché allorain un luogo della vista lavora l’ immaginazione, e il fantastico sottentra al reale. L’ anima si immagina quello che non vede, che quell’ albero, quella siepe, quella torre gli nasconde, e va errando in uno spazio immaginario, e si figura cose che non potrebbe se la sua vista si estendesse dappertutto, perché il reale escluderebbe l’ immaginario» (G. LEOPARDI, Ricordi d’ infanzia e adolescenza, in Zibaldone, BUR).

Sempre caro mi fu quest’ ermo colle
e questa siepe, che da tanta parte
dell’ ultimo orizzonte il guardo esclude.

L’ immagine dell’ «ultimo orizzonte» rappresenta il limite toccato dallo sguardo umano, oltre il quale gli è impossibile spingersi. Ma proprio a partire da questo «ultimo orizzonte» , quale fine della visione offerta dal mondo fisico, si apre illimitata la visione illusoria che gli occhi dell’ immaginazione e della fantasia sono in grado di cogliere.
La «siepe» rappresenta la fine del reale, al di là del quale prende vita l’ infinito

Ma sedendo e mirando, interminati
spazi di là da quella, e sovrumani
silenzi, e profondissima quiete
io nel pensier mi fingo; ove per poco
il cor non si spaura. E come il vento
odo stormir tra queste piante, io quello

infinito silenzio a questa voce
vo comparando: e mi sovvien l’ eterno,
e le morte stagioni, e la presente
e viva, e il suon di lei. Così tra questa
immensità s’ annega il pensier mio:
e il naufragar m’è dolce in questo mare.

Magicamente vivo in Leopardi è il desiderio di attraversare la distanza, di dissolvere quello spazio che lo separa dall’ infinito; ma il timore di cadere nel nulla, nell’ incerto, ovvero nella minaccia perpetua dell’ aprirsi del nulla, lo trattiene dal proprio intento, relegandolo irrimediabilmente alla realtà. Solo grazie alsogno, all’ immagine offertagli dagli occhi dell’ anima, gli è concesso volgere lo sguardo oltre quell’ infinito che, per quanto vicino possa apparire, sempre si allontana. Leopardi vorrebbe attraversare l’ Infinito, attratto da ciò che esso prospetta, ma il timore per l’ incerto e per il palesarsi di quel nulla che atterrisce gli animi gli impedisce di compiere quell’ ultimo passo che lo separa da esso, limitandosi così a sognarlo ogni volta, ad incamminarsi lungo di esso unicamente con l’ anima. Egli è avvolto dalla realtà, circondato dai più tipici elementi caratterizzanti il paesaggio campagnolo che si staglia al suo sguardo, oltre il quale gli occhi corporei non possono spingersi; in quel preciso punto giungono in aiuto gli occhi dell’ anima, sostituendosi a quelli corporei, che osano spingere il proprio sguardo al di là di quanto è dato effettivamente cogliere aggiungendovi del proprio, immaginando chissà quale fantastico mondo.