Ascolto e mi sento dettare un mondo congelato in perdita d'equilibrio, sotto una luce debole e calma e niente di più, sufficiente per vedere, capite, e congelata anch'essa. E sento mormorare che tutto si flette e cede, come sotto dei pesi, ma qui non ci sono pesi, e anche il suolo, inadatto a reggere, e anche la luce, verso una fine che sembra non debba mai esserci. Perché che fine può esserci a queste solitudini in cui non ci fu mai vero chiarore, né verticalità, né solida base, ma sempre queste cose pencolanti, slittanti in un franare senza fine, sotto un cielo senza memoria di mattino né speranza di sera. Queste cose, quali cose, venute da dove, fatte di che? E sembra che qui nulla si muova, né mai si sia mosso, né mai si muoverà, salvo io, che non mi muovo neanch'io quando sono qui, bensì osservo e mi mostro. Sì, è un mondo finito, malgrado le apparenze, è la sua fine che lo ha suscitato, è finendo che è cominciato, è abbastanza chiaro? E anch'io sono finito, quando ci sono, gli occhi mi si chiudono, le mie sofferenze cessano e io finisco, piegato come non possono esserlo i viventi.

(Samuel Beckett, Trilogia – Molloy, Malone muore, L'Innominabile, traduzione di Aldo Tagliaferri, Einaudi, 1996).

Noto come esponente del “Teatro dell’assurdo”, ha come padre letterario l’amico James Joyce dal quale si distanzia negli anni ’50 della sua produzione narrativa. Con la trilogia da cui è tratta la citazione soprariportata, Beckett supera il modernismo e la sua rappresentazione della realtà tramite frammentazione e moltiplicazione del sé per approdare ad una scrittura dove i personaggi tentano di offrire con la narrazione e nella narrazione una consistenza a sé stessi e al reale.