A partire dal Quattrocento si diffonde nel panorama intellettuale l’uso del trattato come genere letterario indirizzato ad uno scopo ben definito: l’analisi di un problema nella sua complessità o la dimostrazione di una tesi. Partendo dalla tradizione classica, da Aristotele a Cicerone, questo genere va ad assumere una forma espositiva, che via via adduce prove e confutazioni, oppure dialogica attraverso personaggi diversi a cui vengono assegnate posizioni diverse.
Al di là della suggestione della tradizione lo sviluppo di questo nuovo modello letterario si deve alla proliferazione de i cosiddetti cenacoli umanistici, in alcuni casi divenuti vere e proprie accademie, da intendersi come luoghi di incontro e discussione in cui il colloquio si delinea quale forma esemplare di scambio e perfezionamento di opinioni.
Gli interrogativi che l’intellettuale si pone a partire dal Quattrocento sino ad una completa definizione cinquecentesca, partono da un’analisi dell’uomo, della sua dignità, del suo ruolo e dei suoi compiti. Questa valorizzazione dell’uomo trova nella riconquista della fisicità, totalmente secondaria nella tradizione medievale, il suo primo fulcro da cui estrinsecare una complessa rete di materie e metodi per lo sviluppo della sua formazione. Dagli studia humanitatis che si ampliano alla filologia e alla storiografia, ad una catalogazione sul piano etico di virtù imprescindibili: la temperanza, la giustizia, la sobrietà, e per le donne la sempre presente pudicizia. Questi elementi sono fondamentali per l’attitudine umana alla vita sociale, all’individuo nel suo agire politico attraverso la virtus che si oppone alla fortuna. Da un lato la capacità umana di previsione degli accidenti, di impegno e costanza per il raggiungimento di uno scopo; dall’altra il dato imprevisto e casuale che esula qualsiasi lungimirante programmazione.
Nella direzione appena descritta appare ovvio che il dibattito si avvii al tema politico che nella trattatistica quattrocentesca si nutre di elementi così riassumibili: l’apporto dato dalla tradizione dei testi classici; il contenuto prevalentemente moralistico che vede l’unione di motivi cristiani e classici per cui il bene, politico e comune, deriva dalla virtù del principe e di quanti con lui collaborano; d’altro canto una direzione più democratica che presta attenzione più al meccanismo delle leggi dello Stato che alle virtù del principe.

Guidare lo Stato e capire lo Stato
Esiste un legame molto forte tra i temi della trattatistica quattrocentesca e l’opera di Machiavelli: l’autore se da una parte nel Principe ribalta il catalogo delle virtù opponendo a quelle che definisce ‘idealistiche’ quelle ‘politiche’, dall’altra prosegue nella tradizione del trattato che ravvisa la soluzione al problema politico nel far dipendere il potere e il buon andamento dello Stato dal principe. La teorizzazione di Machiavelli nasce da più di quindici anni trascorsi nell’apparato statale, anni in cui l’autore ha potuto osservare la costante decadenza dell’Italia anche in rapporto alle potenze ad essa vicine. La novità della sua opera sta, non soltanto nel bilancio storico presentato, ma nell’innovativa progettazione del presente verso una risposta risolutiva.
In Machiavelli si trova l’analisi di un politologo il cui grande pregio consiste nell’analisi lucida della ‘realtà effettuale’, per usare una sua definizione, ovvero nella realtà storica intesa come insieme di forze che costituiscono il mondo, e dall’analisi delle quali l’uomo deve partire per bene agire. Questo realismo politico permette all’autore la coscienza della crisi che l’Italia attraversa ed è vicina alla posizione dell’amico Guicciardini. Tale percezione di ‘ruina’ provoca in Machiavelli una necessità di riscatto che permetta alla nazione di venir fuori dallo stato di subordinazione politica in cui si trova a livello internazionale a causa della mancanza di uno Stato accentrato e provvisto di milizie proprie. In questa direzione la completa riabilitazione dell’individualismo, attuato tramite la figura di un principe provvisto di doti ben precise che l’autore non si esime dal trattare diffusamente, risponde alle esigenze di fondo dell’età umanistico-rinascimentale tralasciando ogni visione trascendente verso una completa responsabilità dell’agire umano.
Su un altro piano l’analisi di Guicciardini che focalizza la propria attenzione sulle varie istituzioni di governo e il loro reciproco integrarsi al fine di teorizzare un congegno costituzionale che assicuri efficienza e buon governo. L’esperienza fiorentina è il punto di partenza attraverso cui procedere alla definizione di un equilibrio tra i poteri al fine di salvaguardare la libertà in modo da prescindere dagli interessi dei singoli tramite la sovranità della legge.
Se la teoria dello Stato e dei suoi meccanismi divide i due autori – Machiavelli non se ne occupa – parallelamente alla crisi dei modelli tradizionali che per Guicciardini non rispondono alle esigenze dello stato moderno mentre per Machiavelli hanno valore di canone storiografico di riferimento, la valutazione negativa della Chiesa è un punto comune nei due autori, entrambi protagonisti di una coscienza critica che attraversa l’intero Cinquecento.