Le esperienze di Dante e Petrarca sull’uso del latino e del volgare avevano condotto gli scrittori del Quattrocento ad un utilizzo preciso del volgare come lingua d’uso per la scrittura a scapito del latino. Dante aveva prodotto un trattato in volgare, il Convivio, per divulgare la cultura dei ‘dotti’ verso ceti amministranti il potere ma ‘illetterati’; d’altro canto aveva composto in latino le opere letterarie riservate ad un pubblico elevato come il De vulgari eloquentia attestando con questa scelta la volontà di riservare al latino la conversazione tra letterati.
Se tuttavia l’esperienza dantesca può essere ascritta al fenomeno del plurilinguismo e del pluristilismo sperimentale, il Petrarca va ad inserirsi in una direzione netta dove il latino tornava ad essere la lingua dell’uso scritto e il volgare veniva scelto per un genere preciso, quello lirico. Anche sull’uso del latino però, Petrarca aveva operato una scelta ben definita andando a recuperare il latino classico a discapito di quello medievale in una tendenza che anticipava l’Umanesimo e che nel parallelo impiego del volgare vedeva un distacco dall’uso popolare e comune verso una ricerca formale altrettanto élitaria.
Partendo da questi presupposti nel Quattrocento si assiste all’avvicendarsi di due fasi che vedono prima il predominio del latino come lingua di cultura, e successivamente il recupero del volgare, fino alla definitiva affermazione di quest’ultimo. In ogni caso per entrambi i momenti una caratteristica è comune: il continuo allontanamento dell’élite letteraria alla ricerca di un canone condiviso rispetto alla popolazione diffratta in una molteplicità di dialetti. Il divario corte e piazza è netto e dunque quell’unità linguistica poi attuata a livello letterario dovrà attendere ancora a lungo (con la diffusione dei giornali) per attuarsi sul piano della quotidiana comunicazione.

I protagonisti del dibattito
Molti furono nel corso del Quattrocento a porre l’accento sul latino: da chi si animava nel discredito del volgare e dello stesso uso dantesco, a chi semplicemente esaltava la lingua latina in relazione alla civiltà che l’aveva accompagnata come Lorenzo Valla.
D’altro canto numerosi furono anche i sostenitori del volgare tra cui si distingue Flavio Biondo, che vedeva latino e volgare come varianti di una medesima lingua dove la seconda derivante dalla corruttela delle dominazioni barbariche nel corso dei secoli (la sua posizione si contrapponeva a quella di Leonardo Bruni che riteneva il volgare frutto di variazioni interne al latino; la linguistica ha mostrato la coesistenza di questi due elementi nella formazione delle lingue moderne). Bisogna attendere, però, Leon Battista Alberti per registrare un vero e proprio invito all’uso del volgare per preferire di «giovare a molti che piacere a pochi», invito che vede pian piano la maturazione dell’Umanesimo volgare di cui massimo rappresentante fu Poliziano, scrittore in entrambe le lingue.

Verso il Cinquecento
Con la definitiva preferenza per il volgare, il dibattito sulla lingua non si spengne nel nuovo secolo ma vaglia prospettive diverse: dalla genesi storica del volgare e la sua localizzazione geografica, alla definizione di un modello normativo oltre che a caratteristiche prettamente grammaticali e ortografiche.
Una prima tesi vede principale, anche se non unico, sostenitore Castiglione: si teorizza la definizione delle caratteristiche del volgare all’interno della corte, luogo di accoglienza e diffusione della cultura e di un’ampia varietà di dotti e tendenze; sarà la corte a stabilire con l’uso e il buon gusto la giusta direzione da intraprendere, privilegiando anche quanto di gradevole potesse provenire da altre tradizioni regionali, oltre quella toscana.
Parallelamente altri intellettuali ritengono fondamentale l’uso del fiorentino come lingua nazionale, pur con la presenza di alcuni forestierismi: si insiste sulla diffusione popolare del fiorentino, dunque vivo e contemporaneo, in controtendenza con la tesi cortigiana.
Infine la prospettiva che verrà adottata, perché rispondente al reale richiamo del dibattito ovvero quello dell’élite culturale preoccupata della scrittura più che della fruizione orale, è teorizzata da Bembo che, in linea con il recupero della tradizione tanto perpetuato durante l’Umanesimo, richiama ad un fiorentino basato sui modelli letterari trecenteschi (quelli definiti dalle tre corone ovvero Dante, Petrarca e Boccaccio).