Giovanni Testori nasce a Novate Milanese nel 1923 e incentra la propria carriera nell’ambito della drammaturgia dopo una laurea in Lettere presso l’Università Cattolica di Milano. Esordio letterario di pregio è la pubblicazione all’interno della collana “I gettoni” di Elio Vittorini del racconto “Il dio del Roserio”.

Molteplici le attività intraprese dall’autore: dalla pittura, alla narrativa, alla poesia, dalla drammaturgia alla critica d’arte, dalla sceneggiatura, al commento morale e di costume.
Testori presenta un’ossessione di fondo che riguarda la nascita, la carnale finitezza dell’uomo, il suo dolore e la sua morte. L’ossessione si articola passando da una dimensione tragica ad una dimensione religiosa.
Testori sarà influenzato da Luchino Visconti, Orazio Costa, Mario Apollonio: avevano tutti una posizione comune sull’arte vista come negazione dell’evasione formalista, come ricerca di una linea che sposasse un impegno anche civile. Ad attirare Testori è quel penetrare le cose nel loro fisico grondare di sofferenza e felicità, l’impatto conoscitivo che mira alla verità segreta della natura intuita attraverso l’immersione negli strati e nella fatica della materia.
Un altro maestro importante per il giovane Testori è Roberto Longhi, incontrato ad una mostra su Caravaggio del ’51. C’è un’osmosi diretta tra le letture dei quadri e le immagini che la fantasia letteraria va creando. Il dato della realtà viene forzato verso una significazione ossessiva che lo taglia, lo ferisce e lo deforma.
L’esordio letterario di Testori si ha con la collana dei “gettoni” di EINAUDI, diretta da Vittorini.
Dal ciclo dei segreti di Milano, Luchino Visconti trae spunto per il soggetto del suo film “Rocco e i suoi fratelli”, metterà inoltre in mostra l’”Arialda” e la “Monaca di Monza”.
Il punto più maturo dell’attività testoriana si ha fra la metà degli anni ‘60 e il 1977, con la trilogia tragica e nei due romanzi, un’intensa produzione poetica e la continua critica d’arte. Inoltre in questi anni dipinge molto, riversando sulla tela uno sfogo privato dove il tema maggiormente presente è il nudo femminile e archetipi chiave quali la madre (come luogo di vita e morte), e la nascita (come luogo di luce e tenebra).
La morte della madre avvenuta nel ’77 è lo spunto che lo porterà a scrivere “Conversazione con la morte”: l’ossessione torna come un punto di chiarezza che rende accettabile la circolarità dell’essere e il suo senso, la coscienza rilegge il ciclo nascita-dolore-finitezza-morte in termini nuovi.
I commenti morali vengono pubblicati sul corriere della sera dal 1978 fino alla metà dell’81. Sono interventi prelevati dalla cronaca di quegli anni tesi. I mali sono lo stravolgimento dei valori tradizionali, il disprezzo della vita, la labilità della memoria; i responsabili sono identificati in una ideologia neo-illuminista male intesa, in una strategia dell’avidità cieca e senza volto.
Pasolini ostentava un’ottica socio-politica, un linguaggio secco ed esplicito infierendo, a volte, sulle istituzioni responsabili.
Testori rivendica invece un punto di vista esistenziale, umano e religioso, dichiara pubblicamente i limiti di un’ottica socio-politica trascurando, così, il processo alle istituzioni responsabili.

Il suo indirzzo teorico-drammaturgico può riassumersi con quanto indicato nel breve manifesto “Nel ventre del teatro” del 1968: dove teatralità e tragedia finiscono per coincidere.
La tesi sostenuta da Testori è che il luogo del teatro non è scenico ma verbale: come Pasolini, anche Testori evidenzia il ruolo chiave della parola, che però non deve essere una parola qualsiasi ma una parola-materia, affondata nel grumo dell’esistenza, nella carne e nelle ragioni della violenza, della passione e della bestemmia che la scuotono. Il teatro è fatto, secondo Testori, di ingorghi di parole.
Fondamentale risulta essere il monologo, espressione ideale di un vero teatro che è una immobile prova religiosa del nucleo immutabile dell’esistenza. Il teatro è prendere atto di uno scandalo senza proporre soluzioni, tanto più si avvicina al nucleo inspiegabile dell’esistenza, tanto più perde d’importanza la collocazione storica ed il dinamismo dell’azione.
L’azione drammatica si struttura solitamente su tre distinte polarità:
l’individuo-eroe che trasgredisce il limite;
la collettività, che è l’orizzonte culturale nel quale è inserito l’eroe, è fatta di valori e tabù
l’assoluto, inteso come Dio nel momento in cui l’uomo vive la situazione di assenza ed abbandono.
Quando uno di questi tre elementi viene meno, il tragico si incrina.

(Tratto dagli appunti di Adriana Morganti)