Nato a Livorno nel 1912 ma genovese di adozione, Caproni fa parte di un gruppo di autori che esordisce negli anni Trenta e Quaranta, appartenenti “per nascita” a quella che è comunemente definita “generazione di mezzo”. Egli figura, infatti, insieme a Sereni ad esempio, in quella compagine di poeti che vivono la propria gioventù e il proprio apprendistato lirico – subito occupato dal Fascismo e poi ulteriormente complicato dalla guerra – in una posizione decentrata rispetto alla storia “ufficiale” della poesia italiana moderna. Svincolati dalle conventicole letterarie dominanti, questi giovani poeti cercano di trovare una propria collocazione «fra la gloria e l’autorità precoce dei fondatori della poesia moderna italiana (Ungaretti e Montale al primo posto), e l’irruenza manieristica e ideologica, passionale e sperimentale dei più giovani».
Caproni esordisce nella seconda metà degli anni ’30 come autore «extraermetico, (se non proprio antiermetico) nel momento in cui si costituiva e si affermava rapidamente l’ermetismo (stricto sensu e fiorentino)», attestando la volontà di ricercare una pronuncia autonoma rispetto alla linea «post-simbolista, orfica e neoclassica», in un territorio di composizione formale estraneo pure agli sperimentalismi che animavano il secondo Novecento: motivo, questo, di un persistente isolamento, uno sconcertante disimpegno mostrato dall’«establishment critico e storiografico» nei riguardi della sua opera, che non gli consentì neppure l’ingresso nella celebre antologia Lirici Nuovi di Anceschi (1943).
Ostracismo che venne definitivamente abolito con l’intervento di Pasolini nel 1952, confluito poi in Passione e Ideologia, primo vero tentativo di esegesi della poesia diCaproni, pur «se non tutte le categorie critiche pasoliniane, come capita a chi affronta un caso quasi vergine, siano oggi accettabili»

Quanto all’ermetismo, un movimento poetico che, secondo il poeta ligure, «esisteva più che altro nei suoi teorici, in sommo grado Carlo Bo, Oreste Macrì e tanti altri», egli ne prendeva le distanze per una innata sfiducia nel valore definitorio della parola e del linguaggio, non più strumento di dominio e controllo della realtà, ma semmai entità distruttrice che s’alimenta di finzione e di maschere e «che perpetuamente replica la sua mancanza originaria, la sua violenta separazione dal dominio inarticolato della voce che cancellandosi lo precede».

L’esigenza estetica da cui prende impulso la poesia di Caproni non muove, infatti, dalla ricerca di una voce poetica depurata, siderale, lontana dal lessico della comunicazione quotidiana, ma dal dato sensoriale, dall’immanenza dei luoghi e dei personaggi che bussano alle porte della poesia per essere poi trasferiti sulla pagina attraverso un impasto di immagini e suono: l’osservazione di tutto ciò che cade nel giro dello sguardo, fa sì che la parola si congiunga al proprio oggetto attraverso un rapporto musicale, che vede muoversi simultaneamente ritmo e timbro.
Del resto Caproni ha sempre scritto, in risposta a chi accusava i poeti del Novecento di non volersi rendere comprensibili, che il problema non è quello dell’oscurità o meno della poesia, quanto della cattiva abitudine dei lettori a voler «leggere tutto – e quindi anche la poesia quelle poche volte che ci mettiamo a leggerla – in chiave e al ritmo e nel senso della prosa d’informazione: cioè in quell’unico senso letterale che tale prosa legittimamente ammette».

Secondo l’estetica caproniana invece in poesia:

non si tratta di capire ma di sentire, e perciò, una volta sentito, di capire davvero con una profondità (o altezza) infinitamente superiore a quella in cui avrebbe potuto inabbissarci (o innalzarci) il più logico dei discorsi logici.

L’approccio alla poesia è “emozionale”: «nel linguaggio poetico non soltanto le parole non sono più natura ma nemmeno, come nel linguaggio logico, concetti:

sono unicamente polle d’emozione, cioè segni che non trasmettono nulla […] hanno tuttavia quest’infinito potere: di generare un’emozione») e, in qualche modo, maieutica. La mia ambizione, o vocazione, è […] riuscire, attraverso la poesia, a scoprire, cercando la mia, la verità degli altri: la verità di tutti. O, a voler essere più modesti, e più precisi, una verità (una delle tante verità possibili) che possa valere non soltanto per me, ma anche per tutti quegli altri «mézigues» (o «me stessi») che formano il mio prossimo e di cui io non sono altro che una delle tante cellule viventi.

(Tratto dalla tesi di Immacolata Caputo)