"Il numero di parole conosciute e usate è direttamente proporzionale al grado di sviluppo della democrazia e dell'uguaglianza delle possibilità. Poche parole e poche idee, poche possibilità e poca democrazia; più sono le parole che si conoscono, più ricca è le discussione politica e, con essa, la vita democratica" Gianrico Carofiglio cita Gustavo Zagrebelsky nel suo La manomissione delle parole.

A cosa servono le parole? A comunicare. Forse.
Ben 1500 nuovi lemmi sono stati introdotti nel vocabolario italiano lo scorso anno. Ciò vuol dire che siamo in totale democrazia? Che la discussione politica e la vita democratica sono più ricche? Per rispondere a questo quesito bisogna ricordarsi che a volte le parole coprono, occultano e censurano altre parole ben più importanti ma pericolose per i concetti cui alludono.
Cosa fanno le parole? Creano la realtà. Pur essendo entità volatili costituiscono la realtà e riescono a modificarla. E quando non esiste una parola per definire un'emozione? Si passa, allora, all'agire. Carofiglio cita come esempio lo studio che l'antropologo Bob Levy svolse a Tahiti negli anni ‘50 in cui mise in luce come nella lingua tahitiana mancasse la parola per indicare la sofferenza morale, da qui l'incapacità di spiegare la sensazione di malessere interiore che sfociava in tasso di suicidi più alto che altrove.
Chi non conosce la parola vergogna agisce di conseguenza in maniera spudorata, chi non conosce la parola sofferenza agisce causandola – ecco il caso dell'atteggiamento criminale.
L'autore fa riferimento ad alcune categorie sociali: i giovani, vittime di una profonda carenza lessicale, incapaci di esprimere le proprie emozioni e sensazioni; e i piccoli criminali vittime di un linguaggio povero e scarno che li rende facilmente imputabili perché incapaci di difendersi e scagionarsi con parole da accuse – fatte anch'esse di parole.
Il linguaggio come prima difesa, ecco il messaggio del testo: conoscere le parole per non lasciarsi abbindolare e ingannare da un linguaggio ampolloso, forbito e vuoto.
Questo libro offre molti spunti di riflessione sull'uso attuale del linguaggio, sullo stadio avanzato del suo depauperamento. L'uso artificioso che ne ha fatto il "politichese" – che utilizza slogan d'impatto ma privi di senso –, o il "linguaggio giuridico" che allontana le masse dalla realtà creandone una parallela e più pericolosa: la lingua del diritto genera norme, contratti, sentenze e atti amministrativi incidendo sulla vita delle persone e rendendo la comprensione oscura al resto della popolazione.
Ciò che si auspica è un ritorno al significato originale delle parole, non all’impoverimento del vocabolario, un linguaggio che per dirla come un personaggio – Humpty Dumpty– non vada a significare “esattamente quello che decido io... né più né meno" poiché, come ribatte Alice non sempre si possono dare significati diversi alle parole a meno di non essere “chi comanda”. Così come, per tendere un ponte verso la quotidianeità, un reato in prescrizione non si può definire proclamazione d’innocenza.
Diviso in 10 paragrafi, di cui gli ultimi cinque dedicati al recupero delle parole: vergogna, giustizia, ribellione, bellezza, scelta, in concomitanza con un clima elettorale che si infiamma con l'uso di metafore inconsistenti e parole che non possono concretizzarsi in fatti, "La manomissione delle parole" è ideale per fermarsi a riflettere e filtrare quanto di vero e concreto c'è ancora nel linguaggio attuale. Perché oggi più che mai, come disse più di un secolo fa Rosa Luxsemburg, chiamare le cose con un loro nome è un gesto rivoluzionario.