Nella prima parte del Quattrocento mentre la letteratura colta in volgare tace, nelle piazze uno stuolo numeroso di cantarini prosegue la sua attività dedicandosi alla rielaborazione e composizione di opere in ottava rima decantate nelle piazze spesso con accompagnamento musicale. La tradizione dei cantari nasce dalla seconda metà del XII e continua a diffondersi proprio grazie all’oralità che ne è fulcro, sino ed oltre la metà del XV secolo.
Questi giullari che dalla corte pian piano passano all’ambiente comunale, hanno una cultura non molto elevata e si interessano all’intrattenimento del pubblico utilizzando formule dalla modesta rielaborazione, ma anzi di facile ripetizione, vicende avventurose intricate ed esotiche, racconti iperbolici e sintassi elementare. Sul finire del Trecento la materia dei cantari diviene una mescolanza dei due cicli cavallereschi, quello bretone e quello carolingio, commistionando la vicenda dei paladini di re Carlo con i viaggi in terre esotiche, l’innamoramento episodico e le atmosfere avventuroso-profane del ciclo bretone.
Arricchendosi nella materia i cantari si fanno più lunghi e iniziano ad essere recitati in cicli divisi in più giorni, fidelizzando un pubblico sempre più ampio a vicende e avventure via via più intricate.
Esiste un rapporto innegabile tra questa tradizione orale e popolare e la nascita del poema cavalleresco ‘con intenti d’arte’, nato con Luigi Pulci e Boiardo e reso mirabile da Ariosto.
Quello che cambia è innanzitutto il livello di produttore e destinatario: l’ambiente elevato di matrice borghese e ancor di più quello cortigiano fornisce ed implica registri più elevati. L’opera poi è composta per iscritto per essere, eventualmente, recitata durante cerimonie e banchetti ristretti. Se le tematiche si conservano, diversa è però la cura stilistica che elimina caratteristiche tipiche dell’oralità (ripetizioni, formule semplici da riportare alla memoria, poetare forzatamente troppo lungo) verso un maggiore controllo formale.

Verso il Cinquecento
All’inizio del Cinquecento è Ariosto a proseguire la narrazione boiardesca riprendendo le vicende là dove nell’Orlando innamorato si erano interrotte e caratterizzando immediatamente la materia trattata, di nuovi aspetti. Se è vero che Boiardo aveva narrato dell’innamoramento di Orlando e numerosi cavalieri cristiani e saraceni per la bella Angelica secondo un impianto che vedeva eroi positivi pronti all’elevazione spirituale tramite la donna amata, è altrettanto innegabile che partendo dalle stesse vicende l’Ariosto fa della materia cavalleresca un uso fortemente strumentale per ritrarre spietatamente una realtà spesso lontana dalla narrazione: nello specifico, l’amore cortese si scopriva come fonte d’insania per l’uomo tanto da portarlo alla follia sin dai primi versi dell’opera.
Lo scritto risponde ad una visione profondamente laica della vita tanto da mancare di qualsiasi disegno provvidenziale che possa guidare la straripante materia, collegata tramite gli interventi del narratore, e sviluppata secondo quella tecnica, antecedente ai cantari, dell’entrelacement che vede l’interruzione e la ripresa continua di vicende che convergono e divergono per tutta l’opera prima di compiersi.

La ricerca dell’eroe
Alla vicenda intricata e ‘aperta’ per certi versi del poema ariostesco, si contrappone nel corso del secolo XVI la necessità di un poema modellato sui capolavori epici dell’antichità (Iliade ed Eneide in primis) che vedono al centro del narrare la figura catalizzatrice dell’eroe. Si tratta di un’esigenza che vuole rispettate le regole di unità di protagonista e azione, di organicità di intreccio e di verosimiglianze tratte dalle considerazioni aristoteliche sulla tragedia.
Questo tipo di esigenze si ritrovano perfettamente in Torquato Tasso che nei Discorsi dell’arte poetica si interroga su come integrare unità d’azione e varietà di accidenti: la risposta, rielaborata per tutta una vita, sarà la Gerusalemme liberata che, dovendo trattare il ‘verosimile’ non può accettare la materia romanzesca del poema cavalleresco ma si orienta verso temi di carattere sacro, in modo «ch’un’azione medesima possa essere e meravigliosa e verosimile» poiché l’intervento soprannaturale, ovvero il meraviglioso cristiano, viene legittimato dalla fede e dunque verosimile agli occhi del lettore.
Lo stile è magnificente e solenne, al fine di rapire gli animi, ma si distanzia dalla narrazione mediocre riscontrabile, a parare tassiano, anche nell’Ariosto.
Partendo dal tema storico della crociata, perfettamente allineato con lo spirito controriformistico contemporaneo al Tasso, il poema si caratterizza per una forte componente psicologica e sentimentale dove il soggettivismo e il lirismo di quest’ultimo si contrappongono al distacco ironico e oggettivo dell’Ariosto.