Per comprendere il significato de La Notte, poema che apre i Canti Orfici, è necessario cogliere il movimento sotteso a tutta la scrittura di Campana e che si può evincere dalle parole di un suo famoso frammento: «Il secondo stadio dello spirito è lo stadio mediterraneo. Deriva direttamente dal naturalismo. La vita qual è la conosciamo: ora facciamo il sogno della vita in blocco. […] Sì: scorrere sopra la vita questo sarebbe necessario questa è l’unica arte possibile»1.
Al di là della chiara influenza nietzschiana, queste poche righe ci fanno capire come tutta la poesia di Campana si muova verso un’unica direzione, quella che coincide con l’aspirazione all’assoluto, inteso come una forma di verità, di seconda vita, la quale può essere raggiunta solamente attraverso la poesia stessa. Con queste parole il poeta di Marradi sembra esprimere il desiderio di andare al di là della vita come la conosciamo e di attingere ad un’altra dimensione, che si trova oltre il dato naturalistico ed empirico. È proprio su questo desiderio e sul tentativo di trovare un varco verso una nuova realtà che si fonda la produzione di Campana.
La Notte apre i Canti e ne anticipa temi, modi, figure e ossessioni, ciò che si trova in seguito è molto spesso una ripresa, in forma di prosa o poesia (distinzione, questa, piuttosto labile in Campana) di ciò che emerge qui, attraverso un continuo atto di riscrittura che esprime il senso della ricerca di qualcosa a cui non si giunge mai. È un continuo girare intorno agli stessi concetti costruendo un andamento non rettilineo ma circolare, che porta il poeta a rimanere bloccato in una sorta di coazione a ripetere, dalla quale aveva cercato disperatamente di fuggire. L’idea della ripetizione e dunque dell’impossibilità di trovare una via di fuga appare ben chiara ne La Notte.
Ciò che risulta subito evidente è la complessa struttura delle nozioni di spazio e tempo, per cui si ha l’impressione che la storia riparta più volte, con un andamento rotto, discontinuo. La dimensione in cui ci troviamo non è quella della storia ma quella del mito e del sogno, una dimensione, cioè, in cui il poeta viaggia nello spazio e nel tempo, presupposto fondamentale per raggiungere una nuova realtà. Tempo mitico e onirico sembrano coincidere per dare vita ad un’epoca lontana, originaria, dove tutto si ripete.
L’attacco de La Notte ci farebbe pensare al riaffiorare del passato: «Ricordo una vecchia città, rossa di mura e turrita […]»2, ma la dimensione mitica viene subito enunciata: «Sopra il silenzio fatto intenso essa riviveva il suo mito lontano e selvaggio: mentre per visioni lontane, per sensazioni oscure e violente un altro mito, anch’esso mistico e selvaggio mi ricorreva a tratti alla mente»3. Come fa notare Marco A. Bazzocchi «[…] il ricordo e il relativo sdoppiamento non rimandano ad un piano del passato più di quanto alludano ad un altro piano, ad una seconda dimensione che viene nominata fin dall’inizio col termine "mito"»4. Il mito è ciò che permette una percezione onirica della realtà, percezione che, mi pare, comincia con quell’ "inconsciamente" del secondo paragrafo, quando il poeta alza lo sguardo verso la torre barbara, aggettivo che denota la profondità senza tempo nella quale siamo ormai immersi. Da questo momento in avanti il riferimento all’inconscio torna più volte e si ha l’impressione che il protagonista stia compiendo un viaggio che segue due movimenti: uno di salita e uno di discesa. Il primo indica un percorso che il poeta dovrà compiere per migliorarsi, per purificarsi, e che inizia con lo sguardo alla torre, il secondo indica un percorso nelle profondità dell’inconscio. Questi movimenti, che appariranno in maniera più chiara ne La Verna, sono opposti ma complementari, perché fanno entrambi parte di quello che potremmo definire un percorso di iniziazione dove salire e scendere sono due fasi necessarie al proprio miglioramento. È ciò di cui parlavo prima, ovvero della spinta a trascendere la realtà, a compiere un cammino spirituale che permetta l’accesso all’assoluto; Campana sembra seguire «un modello che potremmo definire di un romanzo di formazione onirico condotto attraverso l’evocazione del viaggio e l’incontro con alcune figure femminili»5.
Non è difficile riscontrare qui la presenza di Nietzsche (in particolare di Zarathustra) che Campana assumeva come maestro sia nella vita che nella poesia «con la dedizione e l’innocenza del credente, dell’iniziato, dell’uomo che vuole elevarsi idealmente verso la bellezza apollinea, nobilitarsi alla luce dell’assoluto contro tutte le viltà del quotidiano e del comune […]»6. Ma è molto importante anche l’influenza esercitata da un altro autore, si tratta di Edouard Schuré e del suo saggio I grandi iniziati del quale, ci dice Bonifazi, il poeta riprende soprattutto il capitolo dedicato ad Orfeo «con le sue sacerdotesse, i riti, i sacrifici, le apparizioni»7.
La Notte sembra dunque raccontare le varie tappe di un’iniziazione che qui prende la forma del viaggio, da intendersi come fuga da parte del poeta irrequieto e vagabondo verso alcuni luoghi che, anche se non nominati, riconosciamo come Faenza, Bologna, la Pampa e Genova. In realtà non esiste una vera distinzione tra questi nel poema di Campana, tutti i luoghi infatti diventano uno solo perché tutti vengono investiti dai sentimenti e dalle ossessioni campaniane e, dunque, trasfigurati come simboli di una dimensione altra. Per quanto riguarda le figure femminili invece, prevalgono ne La Notte quelle delle prostitute le quali hanno il compito, attraverso l’unione fisica con il poeta di rendere possibile il passaggio, l’iniziazione. Ma, come spiegherò in seguito, in Campana viene a mancare quello che è l’aspetto fondamentale di tutti i riti di passaggio di cui l’iniziazione fa parte, vale a dire il momento cosiddetto della "reintegrazione" quella, cioè, in cui l’iniziato porta a conclusione il suo percorso dopo aver superato un certo numero di prove ed aver raggiunto un nuovo status. Campana potrebbe raggiungere questo nuovo status solamente se riuscisse a trovare un varco, un passaggio verso una nuova dimensione, ma nulla accade e il poeta rimane imprigionato nel suo lungo giorno che continua a ripetersi ininterrottamente.
Eppure più volte si ha l’impressione, e ce l’ha il poeta stesso, che questo varco possa aprirsi, che una di quelle tante porte che si vedono ne La Notte possa portare al di là, o che il ponte, immagine evidentemente nietzschiana, possa davvero rappresentare un passaggio verso l’infinito. Questo, però, non accade e i vari tentativi di trascendere la realtà si rivelano vani e illusori. La porta, come sottolinea Bazzocchi, «[…] non è altro che la prima soglia simbolica che il poeta, come un iniziando ai misteri antichi, ha dovuto varcare. Adesso ne seguono altre, come confini dello spazio ma soprattutto del tempo»8.
Varie fasi di un rito di un’iniziazione, dunque, che si compie, o meglio dovrebbe compiersi, a partire dalle figure femminili che qui, come del resto in tutto Campana, assumono un ruolo fondamentale. Innanzitutto bisogna evidenziare come tutte le donne de La Notte (a parte, forse, il Lei iniziale che pone qualche dubbio, la ragazza del cinematografo e la lavandaia del torrente) siano prostitute, presentate sempre in una coppia formata da una matrona e da un’ancella.
Per comprendere la funzione che le figure femminili svolgono nel testo è necessario risalire ad un altro autore letto da Campana e importante per il nostro discorso, si tratta di Otto Weininger e del suo >em>Sesso e carattere. Nel capitolo "Maternità e prostituzione" «La tipologia della madre è messa da Weininger in rapporto con l’esigenza di propagazione della specie, con il dominio sulla figura del figlio, mentre la prostituta rappresenta, al contrario, sterilità e piacere sessuale»9. E il filosofo descrive la figura della prostituta come superiore rispetto a quella materna e quella a cui si deve rivolgere l’uomo di genio. La connessione tra la prostituta e l’uomo di genio, quale Campana voleva essere, deve aver avuto una certa presa sul poeta che, infatti, finisce per elevare questa figura ad una dimensione sacra, fondamentale nel suo percorso di purificazione.
Ogni figura femminile ne La Notte appare come una speranza che viene però poi sempre delusa. È questo il motivo della coazione a ripetere che sembra schiacciare il poeta e la sua opera, è un meccanismo per il quale non si arriva mai ad una svolta: quando egli sembra finalmente sul punto di andare oltre rimane invece bloccato al di qua, nella realtà fenomenica. In altri termini quello che è l’aspetto fondamentale dei riti orfici, non si compie, si tratta di un’iniziazione che non trova la sua conclusione, che non raggiunge il suo scopo, non c’è nessun arrivo in questo percorso ma solo continue partenze e il ripetersi di situazioni già vissute, in un intreccio di ricordi e visioni. L’eros e la donna, assumono in questo percorso un significato molto importante, perché costituiscono la possibilità (che poi non si concretizza mai) di aprire un varco, di andare oltre; Ruggero Jacobbi parla di mito dell’amore come «[…] salvezza sempre possibile e sempre rinviata: l’amore è il miraggio che una mano diabolica ti sottrae davanti agli occhi quando tutto pare deciso, quando le stagioni della vita sembrano distendersi in una prospettiva finalmente rivelata»10.
Si tratta di un meccanismo in cui si alternano senza sosta lo slancio verso l’ideale e la successiva ricaduta verso il basso, verso la realtà empirica nella quale il poeta rimane imprigionato. Per capire come questo avvenga vediamo meglio il percorso che si delinea ne La Notte.
Potremmo parlare di un viaggio spirituale scandito da una serie di tappe ognuna delle quali coincide con l’incontro delle figure femminili che dovrebbero dare l’accesso alla conoscenza del mondo. Questo percorso sembra essere possibile sin dall’inizio solamente ponendo la realtà in una dimensione altra, caratterizzata, come dicevo, da una sospensione del tempo e dello spazio; entriamo infatti in un contesto in cui le figure appaiono quasi dal nulla, improvvisamente, in un’atmosfera trasognata di luce inumana, quasi di trattasse di un’allucinazione. Con lo sguardo alla torre barbara inizia una discesa nei meandri più oscuri della psiche, i personaggi sembrano muoversi in uno stato di semi coscienza: oltre alle diverse volte in cui ritroviamo l’avverbio "inconsciamente" ci sono altri indizi ad esempio quel "Fu scosso" del quarto paragrafo o "[…] egli seguiva, automa" del quinto o ancora l’espressione "la attrasse", "fu attratta", rispettivamente al sesto e al dodicesimo paragrafo; l’idea trasmessa è quella di figure che si muovono, appunto, come automi, spinti da una qualche forza della quale non conoscono l’origine. Quest’atmosfera onirica e trasognata si accentua nel momento in cui avviene lo sdoppiamento del soggetto, fase che inizia proprio quando compare la prima e forse più misteriosa figura femminile del poema: «[…] Lei, dalle carni rosee e dagli accesi occhi fuggitivi»11. Questo "Lei" non viene meglio specificato, potrebbe trattarsi semplicemente di una delle passeggiatrici citate appena prima, oppure di una personificazione della sera, che compare qui con l’iniziale maiuscola. In qualsiasi caso è proprio con l’apparire di questa figura che inizia la "visione doppia" a cui accennavo prima: il poeta comincia a parlare di sé in terza persona - tecnica che ritroviamo anche nei due paragrafi successivi - dopodiché, al sesto, egli torna a parlare in prima persona ma il tema del doppio viene mantenuto attraverso la presenza dell’ombra che lo segue (ulteriore rimando a Nietzsche) e che costituisce una sorta di altro da sé; lo sdoppiamento è visibile, ancora, al paragrafo quattordicesimo, con l’introduzione del personaggio di Faust che di fatto corrisponde con il poeta stesso nel periodo dei suoi studi bolognesi.
L’incontro con la prima coppia di prostitute avviene al paragrafo sesto. Campana distingue qui la figura della prostituta matura, la matrona, e quella giovane, l’ancella: per entrambe il poeta attua un processo di sacralizzazione, ma alla prima sembra assegnare uno status superiore, la definisce "antica", "sacerdotessa orientale", "barbara", è colei che risulta irraggiungibile, intoccabile, simbolo di una saggezza misteriosa che induce al rispetto e, forse, al timore. Ella fa da tramite per il rapporto che, invece, si consumerà con l’ancella e che dovrebbe costituire un’iniziazione. La giovane, infatti, viene definita "Sfinge", figura doppia che, in quanto tale, potrebbe rappresentare un passaggio, tuttavia si tratta di un varco che non si apre. Lo capiamo ancora prima che cali la notte e avvenga l’unione tra i due, perché si parla di "anime infeconde", espressione che dà l’idea della sterilità del rapporto tra i personaggi tra i quali, di fatto, non si viene a creare nulla. Tant’è che dopo la notte d’amore il poeta, riferendosi all’ancella, parla di "corpo sterile e dorato, crudo e selvaggio" e subito dopo troviamo l’espressione "inganni delle varie immagini"12. È avvenuta la prima caduta, la prima porta che doveva aprirsi è rimasta chiusa, è stato tutto solo un inganno. La storia, dunque, anziché concludersi riparte dalla sera di fiera, anche questa caratterizzata dalla presenza di un personaggio femminile, una ragazza che Campana incontra alla festa. Jacobbi parla di «[…]una donna ideale, pertanto inafferrabile. Incontro di un istante, persino approvato dalla società ufficiale (gli "autocrati"), ma destinato alla dissoluzione, alla dimenticanza»13. Con lei il poeta si reca in una baracca dove si proietta un film, si tratta di immagini diverse tra loro, appaiono città come Londra e Parigi e poi una danzatrice, ma tutto sembra essere una finzione, si parla infatti di "irrealtà spettrale", di "panorami scheletrici di città", di "luce di sogno". Di nuovo la speranza viene schiacciata e ricompare l’idea dell’illusione; l’illusione avviene su due fronti: quello dell’amore e quello che riguarda il sogno di poter sovrapporre luoghi e tempi diversi. La scena si svolge infatti in un cinema, il luogo in cui, grazie al montaggio, tempi e luoghi diversi scorrono davanti come fossero un unico elemento. Era ciò che Campana sperava di realizzare nella sua opera, tant’è che il primo titolo che egli aveva pensato per La Notte era "Cinematografia sentimentale". Ma il "sogno cinematografico" sembra sfaldarsi proprio perché tutto appare come irreale: è di nuovo l’inganno delle immagini. E insieme a questo sogno crolla anche quello dell’amore quando, subito dopo la proiezione, tra i due protagonisti avviene un allontanamento, il poeta avverte la crescente distanza della donna e leggiamo: «La seguii dunque come si segue un sogno che si ama vano: così eravamo divenuti a un tratto lontani e stranieri dopo lo strepito della festa, davanti al panorama scheletrico del mondo»14. Per la seconda volta la realtà si richiude su se stessa, si tratta ancora di un miracolo mancato che viene solamente intravisto.
Così la scena cambia nuovamente, siamo ora in città (presumibilmente a Bologna), il poeta entra in un bordello dove troviamo per la seconda volta la coppia matrona-fanciulla, qui però non sembra esserci nessuna conquista della giovane; viene invece introdotto un nuovo elemento che è quello della tenda di trina appesa dietro la matrona e sulla quale il poeta vede scorrere delle immagini. La tenda assume un significato simbolico, può essere vista infatti, spiega Bazzocchi, come il velo nietzschiano che costituisce l’apparenza tragica della realtà e oltre il quale si cela un segreto che deve venire alla luce, il velo dev’essere squarciato per poter liberare la verità che vi sta dietro. Ma la tenda bianca risulta indecifrabile ed è questo a provocare il dolore del poeta che addirittura, sconvolto, scoppia in lacrime. Si può supporre che il dolore sia quello provocato dall’ennesima delusione, dalla nuova caduta, dall’impossibilità di leggere oltre il velo la realtà che questo nasconde.
Nessuna via d’uscita, dunque, e si passa ad un altro momento, ad un ricordo bolognese, in cui il protagonista è il Faust goethiano nel quale il poeta si identifica. Si tratta, ancora una volta, di una nuova partenza. In questo episodio abbiamo due tipologie femminili differenti, le sartine e la lavandaia: le prime sono quelle che il giovane Faust-Campana frequentava a Bologna; ora il poeta ritorna con il pensiero a quei momenti e, facendo una sorta di bilancio esistenziale, si rende conto di aver speso troppo tempo frequentando sartine, figure anti-eroiche per eccellenza, ancorate al mondo empirico, che non possono essere trasfigurate e, proprio per questo, non avrebbero mai potuto aiutarlo nel suo desiderio di miglioramento spirituale. Resosi conto del fallimento il poeta era fuggito allora dal contesto cittadino verso la montagna dove aveva incontrato un’altra figura femminile, quella della lavandaia. Con lei il poeta sembrava essersi avvicinato più che mai al suo obiettivo, aver trovato il ponte verso l’infinito, ma l’attacco del paragrafo successivo ci convince, ancora una volta, del contrario, i due si sono amati eppure Campana esordisce in questo modo: «Ma quale incubo gravava ancora su tutta la mia giovinezza? O i baci i baci vani della fanciulla che lavava, lavava e cantava nella neve delle bianche Alpi! (le lagrime salirono ai miei occhi al ricordo)»15. I baci vani ci dicono che è stato di nuovo tutto inutile.
Ed è così che, con un ulteriore salto temporale, arriviamo alla terza scena che ha per protagoniste una matrona e una fanciulla; siamo ora in Sud America nella Pampa. Un nuovo panorama, dopo la delusione della città e della montagna, e la speranza che in un altro luogo, in un altro tempo, si possa trovare ciò che ancora manca. La scena non è altro che una variante degli incontri precedenti, la differenza consiste nel fatto che queste donne, in quanto sudamericane, vengono definite selvagge, dove il termine rimanda all’idea di un tempo primordiale e di "un’antichissima libera vita" dove tutto è possibile. La speranza sembra concretizzarsi con la figura della giovane selvaggia che viene associata all’albero della vita, ma la scena si fa inquietante e torbida, Bazzocchi scrive che «[…] ha tutte le caratteristiche di un rito mortuario dove l’elemento erotico è ormai scomparso[…]. Mentre la matrona sottopone il poeta ad una prova di sangue, la vecchia sacrifica la fanciulla […]»16. E alla fine compare di nuovo una porta aperta. Subito dopo inizia la sezione intitolata Il viaggio e il ritorno e improvvisamente ci troviamo a Genova: la porta aperta ha condotto il poeta in quello che per lui è e sarà sempre il vero punto d’approdo, la sua meta spirituale. C’è stato finalmente un passaggio, ma ancora una volta si va verso una situazione che non ha nulla di nuovo rispetto alle precedenti. In realtà qui non si compie nessun viaggio, si tratta solo di un ricordo e il "ritorno" del titolo denota che si sta tornando al medesimo punto di partenza che è, appunto, la dimensione rimembrativa. Si ripresentano le prostitute, qui definite bianche e colossali, ad indicare la dimensione ossessiva che hanno assunto per il poeta; compaiono una serie di immagini che esprimono la consueta tensione verso una realtà altra e subito dopo immagini che indicano come quella tensione rimanga bloccata (la fiamma che vuole liberarsi dal lampione, il cielo artificiale). Questa volta però, a differenza, della sezione precedente, il poeta sembra trovarsi ad un livello successivo del suo percorso verso la conoscenza e la liberazione, infatti appare la figura dell’ "eterna Chimera" che tiene tra le mani l’antico cuore dell’amante. È l’unione con questa donna che gli permette di cogliere un universo senza Dio, di raggiungere, cioè, il famoso obiettivo nietzschiano. Il fisico e lo spirituale si uniscono nella visione di Campana dove l’atto sessuale è proprio ciò che permette uno svelamento, ciò che apporta una maggiore conoscenza. È questo il modo in cui si manifesta il misticismo di Campana, Jacobbi parla di "parte carnale della religiosità" e scrive: «La sua sensualità […] non è una sostanza, è un mezzo: è un modo privilegiato di cui egli si serve per sfigurare il mondo»17. Per questo ne La Notte non è una creatura divina a portare verso l’assoluto ma la prostituta divinizzata.
Eppure, la rivelazione tanto attesa non giunge nemmeno questa volta, la Chimera, figura che Campana ha inseguito per tutta la vita senza mai riuscire a raggiungerla veramente, è colei che detiene un segreto che il poeta non riesce a svelare e che lo conduce ad una ricerca senza fine. Di nuovo la visione viene bloccata e il poeta scrive: «[…]tutto è vano vano è il sogno: tutto è vano tutto è sogno […]»18. Il sogno è vano ed è anche ciò che imprigiona, che esclude, che impedisce di andare al di là, di gettare il "ponte sull’infinito" che viene ancora nominato alla fine della seconda sezione: è stato creato un ponte ma «tutto ci appare ombra di eternità»19 come a significare che il mondo che vediamo è solo un’ombra, nulla è stato davvero scoperto. Infatti nella sezione intitolata Fine siamo di nuovo in uno spazio chiuso ed è ancora notte, niente è cambiato rispetto al punto di partenza, si conferma la struttura della coazione a ripetere e il poema diventa un percorso da notte a notte senza una via di uscita. La chiusa è significativa: «Fuori è la notte chiomata di muti canti, pallido amor degli erranti»20.
Allora il poeta non potrà fare altro che continuare ad errare, proseguire nel suo destino di vagabondo, cercando altrove ciò che, come sappiamo, non troverà mai.

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1 La citazione è tratta da D. Campana, Opere e contributi, a cura di Enrico Falqui, Vallecchi, Firenze 1973 e inserita da M. A. Bazzocchi in Campana, Nietzsche e la puttana sacra, Manni, Lecce 2003, p. 19.
2 D. Campana, Canti Orfici, Garzanti Editore, Milano 2004, p.7.
3 Ibidem.
4 M. A. Bazzocchi, Campana, Nietzsche e la puttana sacra, p.18.
5 Ivi, p. 28.
6 N. Bonifazi, Introduzione a Canti Orfici, p.X.
7 Ivi, p.XXIII.
8 M. A. Bazzocchi, Campana, Nietzsche e la puttana sacra, p. 30.
9 M. A. Bazzocchi, Campana, Nietzsche e la puttana sacra, p.58.
10 R. Jacobbi, Invito alla lettura di Campana, Mursia editore, Milano 1976, p.37.
11 D. Campana, Canti Orfici, p. 7.
12 Ivi, p.10.
13 R. Jacobbi, Invito alla lettura di Campana, p.34.
14 D. Campana, Canti Orfici, p.12.
15 Ivi, p. 14.
16 M. A. Bazzocchi, Campana, Nietzsche e la puttana sacra, p. 37.
17 R. Jacobbi, Invito alla lettura di Campana, pp. 51-52.
18 D. Campana, Canti Orfici, p. 17.
19 Ivi, p. 18.
20 Ivi, p. 19.



BIBLIOGRAFIA:

M. A. Bazzocchi, Campana, Nietzsche e la puttana sacra, Manni, Lecce 2003.
D. Campana, Canti Orfici, Garzanti Editore, Milano 2004.
R. Jacobbi, Invito alla lettura di Campana, Mursia editore, Milano 1976.