All’influenza teorica e all’autorità intellettuale di Maurice Blanchot corrisponde, paradossalmente, una sorta di disconoscimento da parte del grande pubblico. Ammirato da filosofi quali Bataille, Lévinas, Derrida e da poeti come René Char, stimato e imitato per il suo stile originale e affascinante, per la sua capacità di accerchiamento dei problemi e per il trattarli sempre da un nuovo punto di vista, estraniante, illuminante, Maurice Blanchot ha, tuttavia, sofferto un destino di curiosa indifferenza.
Non sono molte le notizie che possiamo ricavare dalla biografia di Blanchot: nato nel 1907, studiò germanistica a Strasburgo dove conobbe Lévinas che lo introdusse al pensiero di Husserl e Heidegger. Successivamente intraprese studi di medicina e psichiatria. Fino al 1931 fu giornalista politico, collaboratore del Journal des débats, rivista di estrema destra, di cui diventerà anche redattore capo. In seguito ci sarà, da parte sua, una netta presa di distanza da tali posizioni e vi sarà un progressivo avvicinamento alla sinistra radicale e libertaria.
Nonostante il libro di Christophe Bident, Maurice Blanchot, partenaire invisible del 1998, che aiuta a far luce su alcuni passaggi oscuri della sua esistenza, pochissimi rimangono i dati biografici.

Scelte distintive
Blanchot non è mai apparso in TV, non ha mai parlato alla radio, addirittura non ha mai parlato nemmeno in pubblico, non ha mai calcato un’aula come insegnante, non ha mai autorizzato nessuno a fotografarlo. Estraneità, isolamento, rifiuto del sistema dei media, lungi dall’essere il frutto di una separazione narcisistica dell’artista dal tessuto dei rapporti sociali e dall’ordito culturale che lo sostiene, costituiscono, in realtà, una scelta precisa e motivata; e la sua resta una scelta del tutto controcorrente rispetto all’atteggiamento comune degli intellettuali del Novecento (e forse in particolare di quelli francesi) che dell’apparizione sui media, dell’essere personaggi a tutto tondo, dell’essere punto di riferimento costante per l’opinione pubblica, hanno fatto un tratto distintivo del loro essere maîtres à penser. In calce ai suoi scritti Blanchot ha fatto scrivere: «La sua vita è interamente votata alla letteratura e al silenzio che le è proprio» [n.d.a.], quasi una minaccia rivolta all’invadenza di importuni e giornalisti. D’altra parte il motto che dominerà la sua esistenza sarà «apparire il meno possibile, non per esaltare i miei libri ma per evitare la presenza di un autore che pretenderebbe un propria esistenza» (come scrisse nel 1986 all’agenzia VU in risposta alla loro richiesta di una sua foto per una mostra dedicata agli scrittori francesi). In questo senso, la scelta di non apparire è coerente con la teoria della sparizione dell’autore nella scrittura: l’opera cammina da sola, è autonoma, una volta scritta essa risponde da sé, e perfino la voce di colui che dice io all’interno del testo, rappresenta una clamorosa menzogna, ogni volta ricreata dallo sguardo del lettore. La stessa solitudine, consustanziale alla condizione dell’artista secondo Blanchot, non obbedisce ad una generica sensibilità verso l’originalità estetica, ma fa slittare la riflessione sul piano etico, richiamando la responsabilità di artisti e critici ad una condizione esistenziale di solitudine: «Si direbbe che noi impariamo qualcosa sull’arte, quando proviamo quel che significa la parola solitudine» (>i>Lo Spazio letterario, p. 11).

Tratti di poetica
Più noto come critico letterario (o meglio lettore nel senso più alto del termine) che come autore di opere narrative (nonostante la sua intera produzione debba essere inquadrata nella prospettiva di un continuum, in cui romanzi e saggi s’integrano reciprocamente e il fitto gioco di corrispondenze tra gli uni e gli altri è spia della volontà dell’autore di tenerli uniti), il suo agire critico non è riconducibile ad alcuna scuola: non rientra nel canone crociano né in quello lukacsiano, non rientra nel modello sociologico della scuola di Francoforte né può essere ricondotto allo Strutturalismo.
Alcune particolarità linguistiche di Blanchot, come l’uso dell’anafora, le sequenze aggettivali, l’utilizzo di alcune figure predilette quali il chiasmo e l’ossimoro, la ricorrenza delle simmetrie misurate, concorrono a far sì che la lingua possieda una cadenza, un ritmo che determinano una capacità espressiva fortissima atta a rendere il discorso trasparente nonostante la complessità della costruzione discorsiva e l’oscurità di alcune pieghe della sua riflessione.
Una svolta nell’opera di Blanchot è certamente segnata da L’infinito intrattenimento: qui infatti il fuoco della discussione mette in scena una parola critica che va oltre ogni genere, che si sposta dalla letteratura alla scrittura tout court, intesa come pratica essenziale che definisce l’essenza stessa dell’umano, i suoi limiti e le sue fratture. Da questo momento in poi l’attenzione di Blanchot si sposta dai singoli autori all’esperienza generica, questione che sconfina nel terreno filosofico dell’alterità.
Un vecchio e importantissimo testo di Blanchot, La letteratura e il diritto alla morte, inserito ne La part du feu, ha contribuito sicuramente a far comprendere come il testo narrativo non possa essere separato da quello saggistico e, anzi, proprio il tentativo blanchotiano di superare tale distinzione di genere, come ci insegna Derrida con le sue analisi, costituisce uno dei suoi contributi più importanti. Ciò appare con chiarezza nel romanzo (anche se a questo punto il termine appare decisamente improprio) La sentenza di morte e ne Il passo al di là, dove la parola narrativa e quella saggistica sembrano inseguirsi disordinatamente in uno spazio dominato dalla forma del frammento. A partire da questo libro, il testo di Blanchot si coagula intorno a a frammenti di narrazioni mescolati ad aforismi, a riflessioni dal tono poetico, alternate a pagine di serrata discussione con Lévinas, Heidegger, Nietzsche ecc.