Guardando alla lettetratura italiana neorealista è possibile rivelare una concordanze di motivi e tematiche epressi da Gianna Manzini (1896-1974) e Stefano D’Arrigo (1919-1992). Nello specifico ciò è rilevabile dalla lettura de La Sparviera dove è possibile ripercorrere le “tracce” di alcuni temi espressi da D’Arrigo in Horcynus Horca e Cima delle Nobildonne di D’Arrigo.
L’affinità tra i due scrittori si evince ad esempio già dal fatto che Gianna Manzini lavorò di continuo a La Sparviera, così come fece D’Arrigo con i suoi testi, compiendo continui rifacimenti e innumerevoli correzioni. Riguardo la Manzini, come riportato da Margherita Ghilardi, il 21 luglio del 1953 sulla Gazzetta del Popolo viene pubblicato il suddetto da cui poi trarrà il titolo l’omonimo romanzo. I temi, abozzati nel 1953, verranno poi ampliati sul suo Diario fino al progetto di un romanzo lungo, snodato in otto capitoli: si potranno leggere allora l’inutile eroismo dell’episodio di guerra, le avventure sessuali di Giovanni unitamente al grande sogno di diventare un attore con l’aggiunta rinuncia all’amore della sua vita – a cui non sarà ancora stato assegnato il nome Stella – e l’epilogo post mortem in cui Marisa è intenta a scegliere una foto di Giovanni da dare al pittore per farne un ritratto. Nel febbraio 1955 sulla rivista romana La Città vengono pubblicate in forma di racconto con il titolo Il bambino non lo sa, le prime tredici pagine del romanzo, in cui vi è la descrizione della festa che non prevede ancora la ricaduta di Giovanni. Intanto gli otto capitoli vengono ridotti a sei, in seguito alla fusione dei primi due e l’eliminazione del quinto. Verranno poi cancellate le sequenze legate al lavoro al tornio o agli schizzi di Giovanni per sottolineare maggiormente la tirannia della malattia, l’angosciante Sparviera del titolo appunto, elencando le rinunce fatte ma non mostrando, o comunque non positivamente, quanto acquisito in cambio. La stesura finale vede l’edizione del 1956 in tre capitoli, ai quali la stessa autrice reputerà necessario apportare alcuni interventi, che verranno proposti con la seconda edizione del volume nel novembre del 1963 nella Collana Mondadori Il Bosco. In questa edizione il primo capitolo presenta l’episodio del dialogo tra la madre di Giovanni e il medico, relativamente alla malattia del bambino per la quale la donna afferma di essere la causa – “Temo dottore, che questo nostro dirgli di no prima che nascesse abbia poi pesato sulla sua salute. Senza dubbio l’abbiamo indebolito”; mentre nel terzo capitolo vi è l’aggiunta di un’intera pagina per la sequenza dedicata alla cessione del terreno ai contadini, quale omaggio al padre dell’autrice, l’anarchico Giuseppe Manzini.
Riguardo il romanzo Horcynus Horca di Stefano D’Arrigo è attestata una “gestazione” di una ventina d’anni, dalla metà degli anni ’50 al 1974: nemmeno la pubblicazione del romanzo, nel gennaio del 1975, interruppe il labor limae dell’autore che vi lavorò fino alla morte, aggiungendovi ulteriori, seppur non significative, modifiche. Il titolo deriva da una lieve trasformazione del nome specifico, in latino, dell’Orca. Si deve però tener conto che, solo nell’edizione definitiva, l’Orca dà il titolo al libro: il romanzo allo stadio embrionale era stato intitolato La testa del Delfino, mentre la versione intermedia del 1961, aveva avuto come titolo provvisorio I fatti della Fera. Nel romanzo ricorre spesso il termine “fera”, quale forma dialettale per indicare il Delfino, diffusa sulla costa ionica della Sicilia e in altre zone costiere del meridione. E ciò si colloca in perfetta linea con il progetto autoriale, conformemente alla ricerca linguistica che struttura il romanzo sulla base di parole dialettali italianizzate e di neologismi.
Parallelamente al lavoro di D’Arrigo, la Manzini introduce spesso nei suoi lavori l’evocazione di figure animali, tra fantasia e realtà, quasi citazioni da bestiario moderno: oltre che ne La Sparviera, il tema rimane dominante dal racconto del 1929 Incontro col falco fino all’ultimo romanzo del 1971 Ritratto in piedi, non dimenticando le dirette citazioni del 1953 con la pubblicazione di Animali sacri e profani e de L’Arca di Noè del 1960. La Sparviera, dal nome comune e l’iniziale in carattere minuscolo dell’edizione del 1953, giungerà a un nome proprio con un’iniziale maiuscola in Il bambino non lo sa, fino a diventare nel 1956 effettivamente il titolo di un romanzo di cui è protagonista. È la malattia, la tosse, a vincolare Giovanni, modellandone il carattere e il futuro, fatto di rinunce: il dottore a riguardo dice “Nessuno gli ricordi la tosse. Lui la chiama la Sparviera; e si spaventa. Deve dimenticarla. Potrebbe restargliene una mortificazione che finirebbe col pesare sul suo contegno, sul suo avvenire”.
In questo romanzo, la scrittrice rende presenza reale la malattia, tanto da separarla dal torace dell’ammalato, trasformandola in una creatura capace di apparire nella polvere che si alza da un tappeto sbattuto o che si cela nel fumo di una sigaretta “E ad un tratto vide che quella ammiccava al fumo. Si snodava, si agitava, diventava prima alta, poi larga; e mutata in enorme straccio di fumo, l’avviluppava. A volte si faceva piccolissima. Si nascondeva in una briciola di pane, in un grano di riso, in un chicco di uva. E al risveglio, la mattina, non mancava mai. C’era prima della tazza di latte caldo”.
Sono tre i momenti di graduale rivelazione della Sparviera, in contemporanea al racconto diacronico della sua apparizione nell’arco di vita di Giovanni, dalla nascita alla morte di cui è causa:
- nella prima parte viene evocata nel ricordo raccontato a Stella, fino al suo riapparire per uno spiffero di vento entrato dalla finestra;
- nella seconda parte viene evocata nell’episodio in cui il recitare Gli Spettri di Ibsen riporta in “scena” la Sparviera con la conseguente rinuncia di Giovanni all’aspirazione di diventare un attore, poiché costretto a vivere in Riviera;
- nella terza viene guardata in volto, quasi posseduta nei deliri della febbre che condurranno Giovanni alla morte: “La Sparviera si liberò del suo bruno mantello col cappuccio. E fu da prima una bambina accoccolata interra che gli voltava le spalle, una bambina tutta riccioli neri. Poi si alzò in piedi; crebbe di attimo in attimo, e a due passi da lui, eppure bizzarramente remota, sempre dandogli le spalle, cominciò a muoversi. […] Aderendovi, Giovanni comincia ad essere felice; spaventosamente, incurantemente felice. – Ancora – supplica, – Di più – invoca. Finché quella gli si mostra di fronte e scopre il viso. Oh, stupendo, così gremito dall’azzurro degli occhi, così lavorato dal ricordo. L’afferra; l’attira; se la schiaccia contro il petto; le preme le mani sulle reni; con le gambe le incatena le gambe. Con tutto se stesso si protende; sale. È sua. Fu una convulsione, uno spasimo. L’ultimo. Quando Marisa rientrò, il volto era già ricomposto; felice”.
In Horcynus Horca di Stefano D’Arrigo le “fere” si sono contese l’onore del titolo con l’Orca: esse sono presenti in ogni descrizione legata al paesaggio marino e sono le protagoniste dell’epilogo della storia. I Delfini contendono ai pescatori il dominio sul mare, in una lotta quotidiana per la sopravvivenza, causando la “famera”, ovvero la fame nera. A proposito il padre del protagonista, ‘Ndrja Cambria, si esprime così: “Questa noi la chiamiamo fera e fera effettivamente è. E fera vuol dire bestino, tutto una fetenzìa che non vale un soldo, ma ruba, rovina e fa assassinaggio”. Quindi i Delfini vengono mostrati in modo inusuale, poiché espressione del punto di vista dei pescatori, che in essi vedono degli antagonisti: i Delfini appaiono nelle pagine del romanzo come i soli animali marini capaci di imprese collettive e folli, così come gli uomini, che nel 1943 consumavano l’impresa collettiva e folle della guerra. Eppure infine il titolo spetta comunque all’Orca. Presso i pescatori la leggenda dell’ “Orcaferone”, denominata così per il fatto di essere una “fera” dalle più grandi dimensioni, presenta un evidente parallelismo con Moby Dick di Melville e il Leviatano biblico: ecco che l’Orca, mito di un gigantesco animale solitario con la fama di essere immortale, diviene portatore di morte, al punto di essere identificato con la Morte stessa. Eppure una delle scene emblematiche del romanzo smentiscono l’ingrata fama dell’animale presso i locali: si tratta dello “scodamento” dell’Orca da parte delle “fere” (i Delfini). Le “fere”, per lo più femmine, sono inizialmente spaventate dall’Orca, ma in un secondo momento vengono attratte dal gigante del mare, notandone e contemplandone gli getti d’acqua a forma di sesso maschile. Tutto cambia non appena le “fere” si accorgono che l’animale è cieco: allora concepiscono il diabolico piano di staccargli la coda e farlo morire, ponendo fine alla leggenda dell’immortalità dell’Orca. L’Orca morente si mesce con l’acqua del mare, decretando la sua fine come l’inizio di un nuovo ciclo vitale: la materia in decomposizione diverrà cibo per altri pesci.
E proprio nell’altro romanzo di D’Arrigo, Cima delle Nobildonne, del 1985, si ha il racconto dell’inizio. Tale romanzo ambientato in una clinica di Stoccolma, la Carolinska, prende in analisi diversi casi: un ermafrodito che sta per diventare completamente donna per amore di un emiro, pur avendo la consapevolezza che anche se godrà nell’atto sessuale questo sarà sterile, poiché le è resa impossibile la procreazione; il professore Amadeus Planika che scriverà un romanzo sulla Placenta, vera protagonista decretata da D’Arrigo; il caso di Irina Semiodice, praghese come Planika, malata di cancro e il lista per un’operazione.
A questo punto se si considerano i titoli dei tre romanzi, ci si rende conto che il loro campo semantico enuncia il perno di ogni storia, rivelando una tosse-sparviera, una lotta intestinale tra l’orca e le fere fino alla scoperta della placenta-Hatshepsut: la Manzini lo fa attraverso Giovanni – “Aveva forse quattro anni quando lui dette un nome alla nemica che lo assaliva a colpi di tosse. Poi aiutato da Stella era riuscito a precisarla, la Sparviera, a regalarle, insieme con una figura, una sua vita” – , D’Arrigo lo fa prima attraverso i pescatori siciliani e le credenze popolari, poi attraverso il professore praghese Planika. In Cima delle Nobildonne la placenta denominata Hatshepsut, termine egizio che significa “colei che va davanti alle nobili” - qui trasposta come “Cima delle Nobildonne” - diviene il fulcro di una monografia incompiuta “Hatshepsut. Splendore e miseria della Placenta”.
Nella prefazione all’edizione Rizzoli del romanzo, Walter Pedullà riporta notizie riguardo la lettura preliminare del testo, quando si chiese se, dato il titolo, si potesse considerarlo un testo storico, con la conseguente risposta di Stefano D’Arrigo: “ Non è un romanzo storico, c’è anche un po’ di storia, sì parecchio Egitto, qualche leggenda ebraica, degli arabi in prima fila, un paio d’americani, ma non è la loro storia, semmai la nostra, fatta di ogni nostro passato, compresi loro. Non pensare al personaggio, pensa alla parola che lo nomina. Hatshepsut, come dice la parola egizia che la traduce in italiano. È la prima delle donne, la più elevata, la Cima delle Nobildonne”. È evidente, data la citazione della placenta quale Hatshepsut, l’interesse rivolto all’unica donna Faraone, che regnò in Egitto dal 1511 al 1480 a.C., accomunata alla placenta per diversi fattori: Planika adorante; Hatshepsut Faraone, alla morte succeduta dal figliastro Thutmosi, che attua un progetto di damnatio memoriae, cancellandone ogni traccia nella storia, facendo raschiare anche i graffiti che la raffiguravano, esattamente come accade alla placenta che appena espulsa perde di considerazione - “Tentiamo insomma di farla scomparire, gettandola nella spazzatura o a mare o sotterrandola, oppure mangiandola, che è il modo più sicuro di farla scomparire, come gli Esquimesi che la mangiano cruda e ancora calda o come le tribù africane seccata e macinata, cotta come pane”. Nell’espulsione viene quindi cancellata ogni traccia del suo ruolo di pre-madre, nel suo potenziale creazionale.
Quando Planika scopre che la placenta rilascia cellule tumorali che attaccano l’individuo dopo una lunga latenza, in età adulta, si chiede se avrebbe potuto chiamarla Hatshepsut, per traslarne l’evocazione di damnatio memoriae della donna faraone, come era accaduto più di 3000 anni prima: Planika come Thutmosi. A proposito D’Arrigo immagina che un gruppo di medici nel preparare un Museo dedicato alla Placenta, arrivi a scoprire che la struttura genetica dell’uomo contiene elementi assassini: la placenta rappresenta un imprinting di morte, a riprova che quest’ultima è intrinsecamente legata alla vita sin dalle sue origini. Non a caso nel romanzo si fa riferimento al poster raffigurante il Fregio del dio Knum e del dio Toth, altrimenti detto “Fregio della vita e della morte”. Al poster si accompagnava la seguente didascalia: “Knum, dalla testa di pecora, specie di Mercurio egizio, era dio di ogni rinnovamento, dal matrimonio al cambiamento di casa, ma soprattutto del rinnovamento per eccellenza, la procreazione, il parto. Toth, dalla testa di avvoltoio, era il dio della morte”. Il dio Toth infatti, secondo le credenze egizie, incide dietro ogni bambino, modellato da Knum al tornio come fosse creta, la data di morte che ne segnerà il destino fin dalla nascita. Oltre al culto religioso, si evoca in questa scena anche una sfera artistica, comune al personaggio di Giovanni in La Sparviera, dove sui suoi scaffali custodisce libri e oggetti d’arte, oltre ad essere egli stesso impegnato nella realizzazione di ceramiche, episodio che però non figura nell’edizione definitiva. Il richiamo ad elementi esterni che chiarifichino pensieri e parole non dette è presente anche nella Manzini, che si rifà all’ambito teatrale attraverso la compagnia di cui fa parte lo stesso protagonista, che prova scene tratte da testi usati emblematicamente: l’Amleto di Shakespeare, presentato nell’atto terzo con l’accusa alla Regina, diviene il pretesto per rinfacciare alla madre di Giovanni le sue colpe; Nozze di sangue di Garcia Lorca, è l’esplicazione della gelosia che Marisa, moglie di Giovanni, nutre nei confronti di Stella, grande amore dello stesso, sullo sfondo di un tragico epilogo; infine Gli Spettri di Ibsen, che strumentalizzato nel dialogo finale, viene assunto come colpa dei genitori, poi scontata dai figli sulle proprie carni, isolandoli. Quest’ultimo aspetto è ancora più evidente se si analizza la frase riproposta a chiasmo dai due autori, Ibsen e Manzini: il personaggio di Osvald in Gli Spettri afferma che a causa della malattia - “Non dormo mai, fingo soltanto”- , mentre Giovanni risponde a Stella, che indica il letto chiedendogli se è lì che dorme - “Io fingo di dormire. Non dormo mai”.
Bisogna però chiarire che la tosse-sparviera, pur resa tangibile dalle parole della Manzini in quella “bambina tutta riccioli neri” e dal nome di un animale, non ha nulla di prettamente medico o scientifico, componente invece dominante nell’opera di D’Arrigo, oltre che nell’ambientazione alla Carolinska, clinica realmente esistente a Stoccolma, anche nell’uso di un linguaggio tecnico e specifico: come già accaduto con Horcynus Horca, motivo per cui lo scrittore aveva frequentato per molto tempo dei pescatori siciliani per coglierne costumi e testimonianze, egli si “prepara” così per la stesura Cima delle Nobildonne.
Motivo costante nella Manzini è l’assenza di un dialogo tra sé e gli altri, e soprattutto nella coppia: la Sparviera esclude Giovanni da un potenziale colloquio con il mondo, poiché isolato fin da bambino a causa della terribile malattia, unica compagna fin da quando “mentre il bidello, con un pacco di vignette sotto braccio (cosa che ricorda le strips o i fumetti citati da Planika alla platea di allievi) apriva la porta, entrò nell’aula dell’asilo d’infanzia una ventata caldo-umida di novembre, portando […] anche il bacillo della tosse convulsa”. Anche il mondo dei pescatori siciliani di Horcynus Horca è spesso fatto di silenzi: “Il segno evidente della carestia è la moria di parole, perché non sono più abbeverate da argomenti, argomenti che sono pesci”. Qui solo la guerra giunge a rompere il silenzio. Ma ne La Sparviera il silenzio non è sempre un qualcosa di negativo: Giovanni associava fin da bambino un suono alla tosse, in contrapposizione alla convalescenza, durante la quale riusciva a godere di un “gran silenzio che forse è la salute”.
Quello che si nota nello scrivere della Manzini è una continua ricerca musicale, come già evidente in un romanzo del 1953, Il Valzer del Diavolo: alla sua produzione sottende una polifonia ritmata, con la ripartizione di uno spartito musicale, come evidenziato nella divisione in tre “tempi” de La Sparviera. Una divisione che viene proposta anche da D’Arrigo sia in Horcynus Horca, presentata anche sul piano tipografico dal cambio di pagina per un racconto che dura quattro giorni, dal 4 all’ 8 ottobre del 1943 (dal sabato al mercoledì), sia in Cima delle Nobildonne, anche questo racconto di quattro giorni (dal sabato al mercoledì) dell’anno 1973, con l’ulteriore divisione in ventuno capitoli, che inoltre prevede il ripetersi del numero tre all’interno della narrazione. Qui la sinestesia musicale, chiaro omaggio a Wolfang Amadeus Mozart, si palesa nella storia del professore Amadeus Planika, che alla nascita sopravvisse al gemello Wolfang, che pure egli sentiva ancora vivamente presente, con l’eco di un richiamo in un posto appartato e silenzioso, che lo faceva sentire da sempre nel mirino, sull’orlo di un baratro: “Il richiamo di Wolfang a 60 anni lo tratteneva ancora ad uno stadio di fetalità che era tuttuno stadio di fatalità”.
Un altro episodio segna tale concordanza musicale: quando Planika scopre la natura assassina della placenta registra i semiomi con la K di Killers e la successione numerata degli stessi, K1, K2, K3, ecc. sembra riproporre nel testo scritto la concordanza con uno spartito musicale mozartiano. La musica è presente poi anche in piccoli particolari, come nell’episodio in cui alla morte del professore, il personaggio di Mattia trova tra gli effetti personali presenti in casa dello stesso un carillon che riproduce il Minuetto di Boccherini. Ne La Sparviera vi sarebbe poi dovuta essere una scena legata all’ambito musicale, nel quinto capitolo, come stabilito tra le pagine del Diario della scrittrice: qui l’espediente della musica, narrato attraverso l’esperienza praticata da Giovanni al violoncello, avrebbe dovuto mostrare la “presa intellettuale di uno che ha la tosse”.
Infine come tralasciare la questione della concomitanza degli elementi autobiografici tra la vita degli stessi autori e i loro romanzi: la tosse di Giovanni è la stessa di cui Gianna Manzini soffriva da piccola, e la sparviera non è altro che la sua allucinazione legata alla tosse convulsa; così come in Cima delle Nobildonne muoiono in molti, ma non nasce nessuno, aspetto insito in una donna che non può procreare e un’altra che ha un aborto. Ciò richiama da vicino la vita di Stefano D’Arrigo che insieme alla moglie Jutta non riuscì ad avere mai figli, elemento che lo spinge a scrivere di personaggi che, come lui, non saranno mai padri. Poi un altro particolare riguarda la data di nascita dei gemelli Amadeus e Wolfang Planika, venuti al mondo il 15 ottobre esattamente come D’Arrigo. In questi a volte piccoli ma significativi elementi, che possono rivelarsi come il fulcro stesso della vicenda, si dimostra come spesso in letteratura non vi sia solo pura invenzione, perché è evidente come la biografia degli stessi autori rifiuti di farsi accantonare.