Lucio Anneo Seneca nasce in Spagna, a Cordoba, all’aprirsi dell’era volgare (generalmente si ritiene tra il 12 e l’1 a.C.).
Giunto molto presto a Roma svolge in questa sede i suoi studi alla scuola dei più grandi maestri del tempo: Attalo, Sozione, Demetrio, Papirio Fabiano, che lui stesso ricorda nelle Epistulae ad Lucilium. Per motivi di salute si trasferisce in Egitto presso una zia materna, dove rimane fino al 31 d.C. quando, rientrato a Roma e intrapresa la carriera forense, gli si apre con la questura il cursus honorum.
Ma Seneca vive in un’età controversa, tra l’avvento del cristianesimo e il consolidarsi dell’impero, e la sua sventura inizia presto.
Odiato da Caligola (la notizia è data da Cassio Dione, Rom. Hist. 59,19,7, che ne attribuisce la causa a un discorso di Seneca in Senato), alla morte dell’imperatore l’ostilità di quello successivo, Claudio, è ancora più grave: nel 41 d.C. è condannato all’esilio in Corsica.
Secondo il racconto di Tacito (Annales, XI), Claudio accusa Seneca di aver commesso adulterio con la giovane Giulia Livilla (figlia di Germanico e sorella di Caligola) dietro istigazione della moglie Messalina, che riusciva così a sbarazzarsi di una temuta rivale e del suo potente protettore.
Condannata all’esilio alle Isole Ponzie, Giulia Livilla è poi fatta uccidere.
Alla morte di Messalina si apre una nuova fase dell’impero dominata dalla personalità di Agrippina, sorella di Livilla, nuova moglie di Claudio e madre di Domizio, il futuro Nerone.
È grazie all’intercessione di quest’ultima che Seneca potrà tornare a Roma, nel 49 d.C. (Tacito, Annales, XII), nella veste di precettore del figlio.
Comincia adesso la fase più brillante della sua vita: quando Nerone succede a Claudio (fatto avvelenare da Agrippina), è ancora troppo giovane e come suo consigliere Seneca sperimenta cosa sia il potere; le fonti sono concordi nell’affermare che durante il Quinquennium Felix, i primi anni del principato neroniano, sono proprio il filosofo e il prefetto del pretorio Afranio Burro a reggere il governo, con grande beneficio per l’Impero. L’intento di Seneca (come appare nel De clementia) è fare di Nerone un sovrano esemplare, ma ben presto l’indole del giovane prende il sopravvento. Nel 59 d.C., dopo aver fatto assassinare il fratellastro Britannico, fa uccidere anche la madre che si opponeva al suo divorzio da Ottavia (figlia di Claudio) e al matrimonio con Poppea. Quale sia stato il ruolo di Seneca in questo delitto non ci è dato saperlo, quel che è certo è che rimane al fianco di Nerone fino al 62 d.C. quando, morto Burro, viene nominato al suo posto Ofonio Tigellino. Non sentendosi al sicuro, Seneca prende commiato da Nerone con un discorso in cui offre di restituire le ricchezze accumulate (Tacito, Annales, XIV, 53-54), Nerone rifiuta (Tacito, Annales, XIV, 55-56).
Il ritiro definitivo di Seneca dalla vita politica, quello che lui stesso chiama secessus, dura fino al 65 d.C., quando rimarrà coinvolto nella congiura pisoniana e sarà costretto al suicidio.
Quella di Seneca è una figura controversa, scrive di sé nel De vita beata, 17: “Io parlo della virtù, non di me. Io sono nel profondo dei vizi, e quando grido contro i vizi, grido prima di tutto contro i miei”.

Seneca tragico
Scoperte in età umanistica, le dieci tragedie del corpus senecano sono le uniche della letteratura latina pervenuteci non frammentarie.
Si tratta di nove cothurnatae e una praetexta, l’Octavia, considerata quasi concordemente spuria. Contiene, infatti, una tipica profezia post eventum: Agrippina annuncia le circostanze della morte di Nerone con una dovizia di particolari che Seneca non avrebbe potuto conoscere poiché muore nel 65 d.C., tre anni prima del Princeps.
Molto discussa è la cronologia delle tragedie, così come il loro significato ideologico.
Nell’ordine in cui le riporta il codice Etrusco-Laurenziano esse sono: Hercules furens, Troades, Phoenissae, Medea, Phaedra, Oedipus, Agamemnon, Thyestes, Hercules Oetaeus.
Non si tratta certamente di un ordine cronologico, né è possibile ricostruirlo con certezza. Possiamo tentare una localizzazione temporale basandoci su una testimonianza di Tacito negli Annales: egli ci racconta che circolavano accuse sul fatto che Seneca si fosse messo a comporre versi quando Nerone si era appassionato al teatro, quindi prima del 62 d.C., data in cui, morto Afranio Burro, si ritira a vita privata.
A sostegno di questa tesi è anche l’analisi degli intenti: Alfonso Traina constata che il significato ultimo delle tragedie senecane è sì una polemica contro la tirannia ma, poiché Seneca non è mai stato un contestatore, ritiene che questo carattere vada recepito come intenzione pedagogica nei confronti di Nerone: non polemica contro il potere ma per il potere, per istruire il giovane Princeps contro i possibili eccessi della tirannide. Del resto, questa interpretazione in chiave filosofica e morale si impone anche perché Seneca assegnava alla poesia un compito pedagogico, e l’attività poetica veniva giustificata solo a questa condizione. Torniamo quindi ad una data non posteriore al 62 d.C. .
Il fatto che l’interesse dell’autore sia rivolto non all’azione ma al paradigma, lascia supporre che fossero destinate alla lettura a corte più che alla rappresentazione innanzi a un vasto pubblico; anche le scene violente, che non si ipotizzano compiute dietro le quinte bensì sulla scena, sarebbe stato tecnicamente davvero difficile porle in essere. Nelle tragedie di Seneca prevale il furor, la follia, al punto che i protagonisti raggiungono eccessi di violenza morbosa. Tinte fosche inaugurano il teatro dell’orrore che tanta fortuna avrà con William Shakespeare: l’Agamennone e il Tieste si aprono con due figure invocate dagli inferi, fantasmi come nel Macbeth.
Sul piano strutturale l’antitesi che si crea tra il furor dei protagonisti e l’invito alla ratio di cui si fanno portavoce i personaggi secondari, fa sì che non ci sia evoluzione dell’intreccio. Si tratta di tragedie etocentriche , cioè dove il tema dominante è l’ethos, lo stato d’animo, che si potrebbero avvicinare ai Problem Plays del teatro inglese: più che tragedie delle allegorie.
A questi eccessi di contenuto corrispondono eccessi espressivi: un linguaggio che somiglia molto a quello della Pharsalia di Lucano e che ha valso ai personaggi senecani l’appellativo di “gladiatori in coturni” (G.E. Lessing).