Ivan V. Lalic (Belgrado, 8 giugno 1931 – Rovinj, 28 luglio 1996) è uno dei massimi esponenti della poesia iugoslava nel vero senso del termine, essendo nato a Belgrado ed avendo studiato a Zagabria, le due capitali di quelle che erano le repubblice iugoslave della Serbia e della Croazia, fra le quali ha diviso la maggior parte della sua vita.
Lalic ha iniziato la sua carriera nel 1955 ed ha pubblicato 14 raccolte di poesie, oltre a svolgere un’intensa attività di critico letterario e di traduttore da Hölderlin a Rilke, da Whitman a Pierre-Jean-Jouve, fino a rendere in versi persino La Divina Commedia.
La sua poesia, definita «protogiovane» per via "dell'istante che, nonostante il suo manifestarsi innumerevoli volte ripetuto nella storia umana, e a dispetto della sua infinita ripetibilità, serba in sé, per chi giunge in una lunga serie di generazione di uomini, la giovinezza e l'originalità dell'esperienza viva” (Vlada Urosevic, citata in L'anno di poesia, 1987, Jaca Book), riflette l'interculturalità della propria vita, tanto da apparire un poeta mediterraneo prima ancora che un poeta Iugoslavo.
Il principale ambito di indagine della sua poetica è il tema della memoria rispetto alle rovine che sono prodotte dalla scia del tempo. Lalic loda in proposito il potere della memoria di conferire le ali alle speranza che consente alla vita di distruggere il vuoto che la circonda attraverso un recupero di significato contro l’entropia della natura e del tempo.
In Italia è uscito per Jaca Book una raccolta di Poesie di Lalic nel 1991, secondo un’antologia suggerita dallo stesso autore. Buona parte di questo testo è consultabile gratuitamente su Google Books.

Una lirica chiave per comprendere quanto sopra è Mnemosine (da: Le linee disturbate, 1975), vera a propria ode alla memoria della quale si porta di seguito un’analisi critica.

Anzitutto, perché questo titolo? Secondo la mitologia greca Mnemosine è figlia di Urano e Gea e rappresenta la personificazione della memoria. Secondo Pausania, in Beozia si trovava l’antro di Trofonio, accesso agli Inferi: per entrare era necessario bere da due fonti: una a destra (LETE) e una a sinistra (MNEMOSINE). La fonte del Lete, dalla quale si dissetano i morti ordinari rappresenta l'oblio delle cose passate, mentre Mnemosine, dalla quale si dissetano le anime il cui scopo è di ricordare l'eccezionale esperienza ultraterrena, rappresenta invece il ricordo. Le fonti simboleggiano quindi il bene e il male, ma anche l’intreccio fra passato e futuro da un lato e fra memoria e oblio dall’altro.

La lirica si compone di quattro parti.

Parte prima
Il poeta guidando sotto la pioggia giunge alle rovine dell’antica città romana di Aquileia ed attraversa la città turistica cresciuta fuori dagli scavi. Natura (nei suoi elementi primordiali: acqua, aria, terra, fuoco) e cultura si sovrappongono senza mescolarsi: “silenzio / in cui nuota la storia come olio sull’acqua”). Come l’autunno segue l’estate serbandone una labile traccia (“cavallette infradiciate, certi fiori selvatici”), così Aquileia serba “sotto i piedi” “segni” e “frantumi” del suo glorioso passato. Come l’olio scivola sull’acqua, così il tempo scivola sullo spazio e d’un tratto la “tenda di Attila” “pesante di pioggia” si tramuta nell”ombrellone rosso davanti al caffè”: tutto è perciò identico, ma altempo stesso così diverso che per immaginare ciò che era Aquileia “bisogna dunque / credere sulla parola”. La città, quindi, si presenta come “rimarginata cicatrice” (il senso di questa espressione è nel seguito: ad ogni modo, qui comincia un fitto intreccio fra questi tre termini: la cicatrizzazione della ferita, l’erosione delle cose da parte del tempo, lo sforzo della memoria non già di crogiolarsi nella scoperta di ciò che è stato bensì di focalizzarsi – grazie però a quel ricordo – su ciò che resta).

Parte seconda
È solo apparente la stabilità trasmessa dalla terra rispetto all’acqua. Sarà stata questa illusione, forse, a far sì che la vita, originata negli abissi, a poco a poco abbia traslocato sulla terra ferma, dove si sono affermate le forme più evolute? In verità basta allargare l’orizzonte temporale perché il fondatore di città somigli al barcaiolo: prima o poi il solco tracciato da entrambi si richiude, inghittendo piazze e torri al pari dell’acqua. Il poeta giustifica l’acqua (“bianca gramigna di spuma” che subito ricopre “il solco dietro poppa”), ma non comprende la terra, la cui “ira tenace” “rode la pietra scritta di parole”, “rovescia la lapide”, “spiana” “l’impronta”. Da qui l’interrogativo: “quando è cominciata la contesa e perché?” Essendo ignote le cause, all’uomo non resta che raccogliere le conseguenze di questo mutamento incessante, tale che “la direzione del moto è in rissa con la velocità”.

Parte terza
Eppure vi è qualcosa di non rimarginato, è possibile rinvenire le tracce di un passato “sfaldato”, “buio”, “smozzicato”. Accade che un muro svanisce, che quel vuoto sia soppiantato da un albero e l’albero da un’ombra e l’ombra dalla speranza e la speranza da un muro, ma in questo “non c’è avvenire puro: lo spazio resta contagiato / dalla febbre dei segni, dal germoglio del ricordo”. Non è dato se non in sogno un “futuro svuotato”, perché “la parola avvenire indica solamente l’incompiuto”, per portare a compimento il quale è necessario leggere i segni non rimarginati del passato che resistono e sembrano concedersi a chi lotta per essi, sebbene sia “terribile sforzo riconoscere l’amore / nel venir meno, e leggere il segno / nell’ortica tra due sillabe di pietra, nella piaga / risonante più presto del rapporto”: “raccogliere le conseguenze” (parte 2.) significa dunque impegnarsi a ritrovare il filo della storia, che tende a dissolversi per la “prestezza / con cui risana la cicatrice”, per la corrosione della “pietra scritta di parole”, per l’annullamento dell’”impronta di lungo amore sull’unico letto”.

Parte quarta
Nel compimento dell’incompiuto acqua ed olio devono potere di nuovo provare a mescolarsi, almeno devono scivolare entrambi in direzione dell’avvenire, portando seco la forza della memoria, l’imperativo del ricordo: “a noi è prescritto / di ricordare, di infliggere colpi; / al pesco è prescritto di fiorire”. Il senso della prosecuzione della vita e del compimento della storia, la ragione stessa di vivere, è tutto in questo “ricordare” oltre e nonostante l’”oblio”. Aquileia, allora, si pone come un esempio ma anche come una metafora del groviglio di stagioni e di eventi che subentrano l’uno all’altro in modo violento (parte 1.), che è però possibile districare (parte 3.), cosicché l’entropia ed il ritorno all’origine (parte 2.) possano essere bilanciati dalla memoria e dalla conquista dell’avvenire, come presentificazione di un passato incompiuto verso il suo adempimento, verso il compimento di ciò che rimane rispetto a ciò che non è più ma che ha pure lasciato dei segni, per quanto labili, per quanto nascosti. Il susseguirsi degli eventi ma anche il rinnovarsi della natura è inevitabile: il pesco ha l’imperativo di fiorire così come l’uomo quello di ricordare” (parte 4.). E questo fa sì che abbiano senso e valore tanto il restauro di Aquileia quanto il ricordare ciò che rimane della città (metafora della vita e dell’opera dell’uomo).


di Maurizio Lancelotti