Il teatro a partire dalla seconda metà del Cinquecento inizia ad affiancare alla consueta produzione letteraria un’attività che si concentra non più sul testo, ma sul ruolo dell’attore e sulle sue capacità di spettacolarizzare la scena. Fondamentale non è più l’opera, ma la ricezione del pubblico secondo un’impostazione quasi filologica che riappropria il termine teatro della sua antica radice theanomai ovvero guardare. Questa tipologia di spettacolo prende il nome di “commedia dell’arte” e si riallaccia alla tradizione giullaresca medievale che faceva prevalere alla parola il gesto, creando un personaggio tipizzato e volutamente ai margini della società, che in essa si era ritagliato un ruolo ben determinato, ai bordi della consuetudine e per questo accettato in ogni esternazione.
Su questa strada di tipizzazione, di definizione di caratteristiche riconoscibili, si creano via via più stabilmente nel Seicento le maschere, ovvero tipologie comiche aventi da una parte suggestioni folkloriche, e dall’altra elementi tratti dalla sedimentazione letteraria di cui alcune tipologie umane provenienti dalla classicità (per esempio lo sciocco, il giovane innamorato, il servo ruffiano…).
Partendo da questi elementi, i comici dell’arte rendono fissi e perfettamente riconoscibili i tipi umani figurati anche grazie ad una rappresentazione scenica prestabilita che prevede, tra gli altri, Pantalone dei Bisognosi come mercante avaro e di parlata veneziana, il Dottore Balanzone prolifero di citazioni latine con sostrato dialettale, Arlecchino squisitamente multicolore.
Là dove le rappresentazioni restano immutabili è chiaro immaginare come tutto dipenda dalla bravura dell’attore le cui interpretazione e improvvisazione sono determinanti per l’apprezzamento del pubblico, specialmente in una dimensione priva di un testo definito. C’è da dire, infatti, che i commedianti dell’arte si muovevano su un canovaccio a cui aggiungevano, a seconda delle situazioni che abilmente andavano a improvvisare in scena, dialoghi e motti prestabiliti, soliloqui e scene comiche.

Il cambiamento goldoniano
Gli elementi tipici della commedia dell’arte come li abbiamo descritti, alla fine costituiscono il suo stesso limite: la tipizzazione umana diventa immobilità esacerbata dalla presenza delle maschere di cartapesta che annullano l’espressività degli attori; la comicità spesso scade in trivialità ed eccessivi dialettalismi.
Nel corso del Settecento rinnovato vigore a questa tipologia di rappresentazione si deve a Carlo Goldoni, veneziano, che nell’arco della propria vita persegue l’ideale di una vera e propria riforma teatrale. Due gli elementi di svolta: la definizione di un testo scritto a cui attenersi fedelmente e la restituzione dell’espressività dei protagonisti che, da meri tipi sclerotizzati , si trasformano in caratteri derivanti dall’attenta osservazione del mondo. Di qui l’intento didattico-morale del teatro goldoniano che ha nella rappresentazione della realtà e di chi la popola il suo soggetto principale, esplicato attraverso una verace comicità, lontana da qualsiasi dimensione eroica, ma reale, buffa, tragicomica nella sua rispondenza al vero tanto da essere definita dall’«Illuminismo popolano» (Valeri) perché vicina al sentimento di un’epoca che condivide a tutti i livelli sociali una profonda fiducia nell’individuo e nel suo buon senso.