Al gesto della scrittura fa eco quello della lettura, e la parola scritta acquista vera vita nel momento in cui uno sguardo la riempie di senso. Solo quando viene complicato, l’apparentemente spontaneo atto di lettura comincia a vivere. Come impedire infatti il desiderio di interpretazione (l’esigenza quasi) che, inevitabilmente, procede dalla lettura? Come contenere le derive interpretative che si innescano non appena si oltrepassi la lettera, il significato manifesto, non appena si intraveda il testo oltre il testo? Difficoltà ulteriore, dubbio d’altra natura, minaccia quasi, all’atto stesso della lettura come modo di esperire “l’altro” attraverso la mediazione del testo scritto, è rappresentata dall’intervento soggettivo presente già alla prima lettura. Non è forse vero che, in realtà, non si legge che la propria lettura e non le parole che formano il testo che si ha davanti? Già Paul Valery sostenne, a suo tempo, l’inesistenza di un vero senso del testo e, coerentemente, applicò il principio anche alle proprie poesie, eliminando così l’errore di interpretazione.
L’impossibilità di ogni lettura, la vanità di ogni scrupolo interpretativo viene compendiata dall’opera di Maurice Blanchot, pensatore oscuro ed originale del Novecento francese.
Lettura e scrittura, pratiche inestricabilmente congiunte, si rivelano essere complementari e consequenziali nel continuum dell’opera teorica e narrativa di Blanchot. Romanzi e saggi s’integrano reciprocamente e il fitto gioco di corrispondenze esistente tra gli uni e gli altri è spia della volontà dell’autore di tenerli uniti. È come se i saggi critici eleggessero a loro tema, oltre all’opera di questo o quell’autore, il meccanismo che fa sì che questi istanti ipnotici di furibonda contrazione spazio-temporale, asfissianti di fascinazione, incontrollabili dalla coscienza, ipotechino vasti spezzoni di esistenza. L’interrogazione blanchotiana è dunque, in primis, il racconto di una fascinazione. I momenti in cui essa si consuma, estrovertiti e messi a nudo in una sovrapposizione all’oggetto artistico indagato, sono gli stessi che agiscono invisibilmente nell’esistenza, determinando destini individuali. Anche nella saggistica ad essere rispecchiate, in ultima analisi, sono esperienze esistenziali; e qui risiede forse il fascino di quella pratica singolare che è il leggere, legato alla possibilità quasi magica di dar vita alle pagine del volume, di attualizzarle e assimilarle facendone una componente essenziale del proprio immaginario.
La ricerca blanchotiana si configura come una lunga meditazione sulla scrittura (e di sé come scrivente) e la nozione di Spazio letterario costituisce il fulcro della sua parabola artistico-letteraria.
Spazio letterario dunque come luogo eletto a metafora nel quale si origina e si manifesta la scrittura; spazio in cui il testo letterario si trova ad interpretare e ad assommare su di sé un doppio movimento di scrittura capace di inglobare possibilità inizialmente percepite come incompatibili. Nell’opera blanchotiana effettivamente è difficile percepire tra i due movimenti un intervallo di tempo, uno stacco netto, cioè un’opposizione di direzioni e una differenza di azioni.
Fin dall’inizio della sua produzione Blanchot si (pre)occupa della ricerca e della definizione dello Spazio letterario succitato; nel 1955 arriva a teorizzarlo con L’Espace littéraire. Non una semplice raccolta di saggi quanto un lungo e articolato discorso sulla nascita (come origine) e l’evoluzione del fatto letterario. Le trattazioni che si susseguono sono esempi nitidi incastonati come gemme nella storia letteraria, piccole monografie che spaziano da Mallarmé a Kafka, da Hölderlin a Rilke. In questo testo l’atto di lettura rappresenta il cardine attorno al quale ruota la riflessione: le pagine dedicate alla lettura, occasionali frammenti di una continua ripetizione, recano il segno della profonda felicità del lettore, posizione in contrasto rispetto all’angoscia, al rischio e alla precarietà sotto il cui segno si inscrive il rapporto tra l’opera e l’autore, antitesi esplicitamente segnalata a proposito di Kafka: “À Kafka l’angoisse, les récits inachevés, le tourment d’une vie perdue, d’une mission trahie, (…). Mais au lecteur de Kafka l’angoisse qui devient aisance et bonheur, le tourment de la faute qui se transfigure en innocence» (Maurice Blanchot, L’Espace littéraire, Gallimard Paris, 1955, pg 205-6).
L’opera, il libro, specificatamente nella sua natura comunicativa, nel suo atto di istituire una breccia nello spazio che tende a delineare, viene concepita in un movimento, una natura «attiva» del testo: «Leggere, dunque non è ottenere la comunicazione dell’opera, è far si che l’opera si comunichi» (L’Espace littéraire, cit. pg. 208; traduzione mia).
Facce diverse della stessa medaglia, entità differenti nutrite e generate nel medesimo ambito, autore e lettore condividono la legge istituita dall’opera; artista e fruitore vengono mantenuti a distanza da un’opera che, nella sua espressione di frattura, nella sua aspirazione, non rimanda ad altro che a se stessa; non tende a nulla e non ha direzione: “Tuttavia l’opera – l’opera d’arte, l’opera letteraria –, non è né conclusa né inconclusa, è. Al di fuori di ciò non è nulla. Chi cerca non trova nulla, trova che essa non esprima nulla” (L’Espace littéraire, cit. pg. 12).
Questa sospensione indefinita, questa autonomia dell’opera porta impressa il segno della solitudine dello scrittore:”scrivere è entrare nell’affermazione della solitudine [...]. Significa librarsi al rischio dell’assenza di tempo, dove regna l’eterno ricominciamento. Significa passare dall’io all’egli, in modo che ciò che mi arriva non arrivi a nessuno” (M.B., L’Espace... , cit. pg. 24).
Anche in questo caso Kafka si rivela esemplare nella sua vocazione alla solitudine, nella sua attitudine alla scrittura che si riflette nella difficoltà a vivere, e vivere attraverso la scrittura presuppone un esercizio quasi ascetico della solitudine che assume così i caratteri di una presenza concreta e soverchiante, senza però connotazioni unicamente negative: “Kafka ci lascia capire di essere capace di liberare in se stesso forze latenti, o ancora che, il momento in cui si sente chiuso e circondato, può scoprire, in tal modo, possibilità vicine che ignorava” (pg. 22; trad. mia).
Appare doveroso precisare a questo proposito che la militanza di Blanchot a favore di un’arte nutrita da un’esigenza di solitudine non obbedisce a una generica sensibilità verso l’originalità estetica ma fa slittare la riflessione sul piano etico, richiamando la responsabilità di artisti e critici ad una condizione esistenziale di solitudine: “Sembra quasi che apprendiamo qualcosa sull’arte, quando proviamo quel che significa la parola solitudine” (pg. 11).
Questa solitudine lungi dall’essere il frutto della separazione narcisistica dell’artista dal tessuto dei rapporti sociali e dall’ordito culturale che lo sostiene è, in realtà, metaforizzazione della condizione abituale di crisi e disponibilità al rischio propria di ogni esperienza artistica aldilà del medium che la veicola: “La solitudine dell’opera – l’opera d’arte, l’opera letteraria – ci svela una solitudine più essenziale. Esclude l’isolamento compiacente dell’individualismo, ignora la ricerca della differenza” (pg. 11).
Questo profondo raccoglimento che Blanchot denomina “solitudine essenziale” riguarda sia l’opera che l’autore, e il fruitore, si trova a condividere lo stesso spazio d’azione dell’artista e del suo prodotto. L’esigenza di solitudine dell’opera fa sì che essa stessa ne sia espressione e, lungi dal costituire un ostacolo alla comunicazione, offre in realtà un ponte comunicativo tra autore e lettore: “L’opera è solitaria: ciò non significa che essa resti incomunicabile (…) Ma chi la legge è preso nell’affermazione di questa solitudine dell’opera, come colui che la scrive appartiene al rischio di questa solitudine” (pg. 12).
Il lettore ricrea il libro senza l’intervento della scrittura, senza riscriverlo fa in modo che il libro “si scriva o sia scritto”, esso è il tramite tra l’opacità impenetrabile del libro che esiste e l’opera che non esiste se non dopo l’esercizio della lettura: “Senza che lo sappia, il lettore è impegnato in una lotta con l’autore: ogni lettura (…) l’annulla per rendere l’opera a se stessa, alla sua anonima presenza, all’affermazione violenta, impersonale, che essa è.” (pg. 202).
Ed è ancora il lettore, o meglio la lettura nella sua impersonalità, a conferire al libro lo status che lo colloca tra le rese di una tradizione nobilitata dalla cultura: “il lettore da al libro l’esistenza della statua; il libro ha, in qualche modo, bisogno del lettore per diventare statua” (pg. 202).
La lettura appare così un completamento della scrittura, dell’atto stesso di scrivere, è , per così dire, il soffio vitale che evoca la parte divina della creazione, sebbene non produca nulla è più positiva della creazione, più creatrice. Proseguendo il proprio destino, che è quello di uno spossessamento pari a quello dell’autore, il lettore muove i primi passi verso l’opera, s’impegna in “una danza con un compagno invisibile in uno spazio separato, una danza gioiosa, perduta” (pg. 206).
Nell’atto di lettura, che costituisce dunque un pendant rispetto alla scrittura, si ripercorre la condivisione di un eccesso nell’inversione di un movimento eccentrico e paradossale. Lo scambio tra autore e lettore è originato da una lotta di esigenze indistinte, di momenti inconciliabili ma inseparabili. Ma non vi è l’urto di questi momenti, di questi due antagonismi: vi è, nell’avvenimento costituito dallo scrivere, la riunione della tensione degli opposti che viene fuori nell’unità inquieta della loro comune appartenenza.