Una delle modalità di lettura più interessanti, riguardo la decodificazione delle esperienze e teorizzazioni teatrali del Novecento, potrebbe consistere nel considerarle come un tentativo di restituire al teatro la ricchezza sinestetica e la plurisensorialità che avevano caratterizzato lo spettacolo in Occidente fra XV e XVII secolo e che, dal ‘700 in avanti, si erano drasticamente ridimensionate per il progressivo affermarsi di una drammaturgia di tipo testocentrico.
Interi filoni della sperimentazione artistica contemporanea sono fortemente connotati dalla pratica del coinvolgimento e del contatto fisico, ed è in questo modus operandi/ che si possono cogliere importanti segnali di un ritorno di interesse per il teatro come esperienza fisica e plurisensoriale (a parziale esemplificazione potremmo citare Oracoli di Enrique Vargas del 1997, sorta di itinerario iniziatico che lo spettatore percorre in solitudine o in compagnia di pochissimi altri, sottoponendosi a una lunga serie di sollecitazioni sensoriali oltre che di prove ed incontri enigmatici, e L’Edipo (Tragedia dei sensi per uno spettatore) del Teatro del Lemming dello stesso anno, che presenta una situazione in sostanza analoga alla precedente ma in una condizione di non-visione essendo bendato dall’inizio alla fine dello spettacolo).
Generalmente si fa risalire “l’età dell’oro” delle sinestesie alla seconda metà dell’Ottocento con le Correspondances baudeleriane e le Voyelles di Rimbaud e la conseguente partecipazione del teatro a questa sorta di riattivazione plurisensoriale.
Il Simbolismo, con la sua violenta reazione alla messa in scena naturalistica, offre il terreno ideale per l’ingresso delle sinestesie nel teatro europeo. Esse infatti incarnano la costante oscillazione delle teorie e delle esperienze sceniche simboliste fra la rivendicazione di un teatro mentale che si riferiva a Mallarmé e una posizione antitetica che, in sintesi, mirava ad organizzare la contaminazione e l’ibridazione dei materiali artistici per una sorta di espressione “totale” seguendo l’insegnamento wagneriano. Nella proposta simbolista è evidente l’intenzione di ricondurre la scena a una dimensione magico-sacrale, restituendo allo spettacolo l’aspetto e la funzione di una cerimonia, di un rituale, nel tentativo di riattivare anche “la presunta originaria unità del sensorio umano” (Umberto Artioli, Teorie della scena dal Naturalismo al Simbolismo, Sansoni, Firenze, 1982; pp.45-46).
Sempre in ambito simbolista, ma spostando la messa a fuoco sul cuore delle rivoluzioni artistiche novecentesche, negli anni dell’avvento dell’arte astratta, è interessante citare l’opera scenica composta da W. Kandinskij nel 1909 e intitolata Il suono giallo. Basandosi sul montaggio di suoni, colori e movimenti, l’opera segue una linea di combinazione inesauribile che va dall’accordo al contrasto, alla cooperazione alla dissonanza, in cui il movimento ritmico costituisce, nel “montaggio della scena” una sorta di antitesi costante rispetto alle musiche e al colore.
L’importanza storica del testo di Kandinskij, anche alla luce di alcune dichiarazioni esplicative dello stesso autore (Cfr. A. Scöemberg-W. Kandinskij, Musica e Pittura, SE, Milano, 2002.) sta nel fatto che, per la prima volta nel teatro post-naturalistico, rinunciando alla connessione logico-causale, sia stata possibile una sintesi di elementi eterogenei che trova il suo punto d’arrivo e il suo completamento nello spettatore.
Nello stesso solco è possibile inserire anche i futuristi che, con i loro manifesti e le loro proposte sceniche sono stati fra i primi a pensare lo spettacolo teatrale come azione diretta che agisse sulla mente, sui nervi e sul fisico dello spettatore. Al di là della superficialità chiassosa, spesso ideologicamente inaccettabile del teatro futurista, a Marinetti e compagni spetta il merito di aver spostato il fulcro della problematica teatrale sul piano dell’azione (marginalizzando così il piano della rappresentazione).
La radicalizzazione estrema della problematica fin qui affrontata appartiene in primis ad Antonin Artaud. È fuor di dubbio che Artaud abbia inciso in maniera profonda sul Novecento teatrale e non solo, e si sia rivelato una delle più grandi personalità della scena contemporanea, quella che forse più ha contribuito a cambiare il modo di fare e pensare il teatro oggi.
A proposito di Artaud va innanzitutto dissipato un tenace equivoco: egli non fu soltanto un folle utopista , un teorico perso dietro visioni irrealizzabili e prive di concretezza. Nel magma della sua creatività artistica, ciò che emerge con più evidenza è un progetto lucido e coerente nella sua pluridisciplinarità: il teatro come momento unificante di un’opera globale estremamente diversificata, come fil rouge dell’immenso corpus artaudiano. Teatro che, comunque, checché se ne dica, egli realizzò anche se meno sotto forma di spettacolo che sotto altre forme: libri, disegni e, ancora più decisive per l’evoluzione del teatro post-drammatico, conferenze e letture pubbliche.
Studiando con attenzione il discorso di Artaud si comprende come per lui non si tratti più soltanto di colpire i sensi dello spettatore e il suo sistema nervoso, di provocargli uno shock psicofisico che dia adito a reazioni emotive e intellettuali (come per esempio nella presa di coscienza della Russia post-rivoluzionaria): il suo “Teatro della crudeltà” scava nella profondità più intima dello spettatore, trasformandolo integralmente e in maniera permanente. La questione cardine risiede qui nell’accesso a un grado “superiore” di consapevolezza, ad una dimensione di conoscenza vera, autentica. Appare chiara, sotto questa prospettiva, la scelta dei doppi del teatro che percorreranno reiteratamente la sua opera: la metafisica, la peste, la magia, la crudeltà: tutti concetti che implicano una totale trasformazione, un permanente e irreversibile cambio di stato. In Artaud avviene un approfondimento progressivo dei concetti che, grosso modo, coincide col suo passaggio dalla fase degli anni Venti quando, ragionando da regista d’avanguardia, concepiva lo spettacolo come un preordinato concerto di materiali espressivi (parole, gesto, movimento, ecc) nel quale l’attore aveva il ruolo di segno fra altri segni, alla fase successiva, quella del “Teatro della Crudeltà” nel quale all’attore è attribuita un’importanza capitale.
La teoria artaudiana della crudeltà è già presente in nuce nei testi degli anni Trenta quelli che andranno a costituire Il Teatro e il suo doppio, testo che contiene una vera e propria teoria del linguaggio teatrale e ha il merito di restituire al teatro, attraverso la teoria, la propria autonomia innanzitutto attaccando la soggezione verso il testo del teatro tradizionale: “È importante innanzitutto rompere l’assoggettamento del teatro al testo” (Antonin Artaud, Il Teatro e il suo doppio, Einaudi, Torino, 1968, pag 49.) afferma, sferrando il suo attacco allo statuto di eterogeneità a cui lo condannava la tradizione post-rinascimentale: cessare di rappresentare sulla scena un testo letterario, già colpevole, in partenza, di ri-presentare la realtà quotidiana. Il punto di partenza della questione, la polemica contro la ricomprensione e la restituzione creativa, era la logica del “rimando a”; il teatro doveva riconquistare la propria autonomia fatta non solo di parole ma di rumori, gesti, luci, movimenti, colori, forme, ritmi. Non è certo solo un problema di specificità estetica ad essere sollevato da Artaud, ad essere messa in gioco è la ricerca di un linguaggio che sappia raggiungere direttamente i sensi. Come potrebbero le parole da sole esprimere o anche solo suggerire quel che oltrepassa i nostri concetti?
È necessario dunque che lo spettatore sia completamente coinvolto nell’azione, con la mente e con il corpo, presupposto necessario per il senso partecipativo del teatro artaudiano. Nel teatro-rito della crudeltà il pubblico partecipa all’azione in un rituale di rifondazione e rigenerazione che sarà il sogno ricorrente del teatro a venire.