In un continente martoriato e disperato […] i fiori esistono,ci sono delle stelle nel cielo e il vino di palma non si beve solo durante le veglie funebri, ma anche per i matrimoni e le nascite. (Emmanuel Dongala, Jazz et vin de Palme, Paris, Hatier, 1982; trad. it.: Jazz e vino di Palma, Edizioni Lavoro, Roma 2005)

L’affermazione di Dongala ci consente di sottolineare come la comparsa in Europa di opere appartenenti a culture differenti come quella africana abbia condotto ad una rivisitazione del canone letterario occidentale e allo stesso tempo ad una riformulazione di concetti come quelli di identità e alterità. Mentre esiste già negli anni ‘70 una consistente produzione nei paesi anglofoni e francofoni, l’attenzione sulla letteratura africana in Italia viene richiamata solo di recente grazie all’assegnazione di premi Nobel così come all’impegno di alcune case editrici e riviste. Facendo riferimento in particolare alle ‘nuove generazioni di scrittori’ e tra questi va annoverato il nome dello scrittore eritreo Hamid Barole Abdu, oltre alla questione coloniale e all’esilio, ad occupare le pagine dei loro scritti ci sono temi nuovi tra i quali la questione femminile e il riconoscimento dell’identità. In particolare, nel caso dell’autore Hamid Barole, egli ci guida all’interno di un universo quotidiano in cui gli immigrati divengono oggetti facilmente manipolabili e sfruttabili. Stabilitosi in Italia nel 1974, i primi anni di permanenza nel contesto sociale italiano sono per Hamid Barole gli anni più sereni. In un’intervista egli afferma: “Venivo presentato come il compagno Hamid, l’eritreo, senza nessuna etichetta del tipo “immigrato” […] e anche “Il contesto nel quale vivevo era cosi sereno che non mi sentivo un “portatore di cultura”, un “portatore di etnia”, un “etnico”(Intervista del 26/04/2011 inviata dall’autore all’indirizzo di posta elettronica [email protected]). Nel corso degli anni ’80, i cambiamenti sociali e politici in atto nel nostro paese, trasformano Hamid Barole in un “diverso” costringendolo ad accettare una condizione che a lungo aveva scongiurato. La domanda che spesso si rivolge è: “Diverso, Ma perchè? Faccio le stesse cose che fanno i miei amici italiani: ci piacciono le stesse ragazze, ci vestiamo allo stesso modo, ci divertiamo insieme. Ma perché la gente mi considera diverso?”. Le discriminazioni e le contraddizioni all’interno di un contesto in cui crede di essere accettato, lo portano dunque ad intraprendere un difficile percorso identitario e ad affidarsi così alla scrittura. Autore di testi come Akhria- io sradicato poeta per fame (1996) e Sogni e incubi di un clandestino (2001), Hamid Barole Abdu si occupa oggi delle problematiche e dei disagi dei cittadini immigrati. Secondo l’autore ciò che accompagna lo sradicamento dai paesi d’origine non è solamente l’angoscia ma anche l’invisibilità a cui gli immigrati sono costretti. A tal proposito sia nelle poesie che nei racconti la componente autobiografica emerge in maniera nitida: protagonista in prima persona di episodi di razzismo, i suoi personaggi sono alle prese con un universo quotidiano il quale considera in maniera negativa e dispregiativa il rapporto con il diverso. La ricerca di una casa e persino il camminare per strada diventano per l’autore motivo d’angoscia e allo stesso tempo mettono in luce un contesto sociale dominato da stereotipi e luoghi comuni. Questo è ciò che l’autore racconta a proposito di uno spiacevole episodio accadutogli in un bar:

Era maggio del 1990. Faceva caldo. Ero entrato in un bar per consumare da bere. Non avevo ancora ordinato nulla quando il barista mi disse “Non do’ da bere ai marocchini”. Sono rimasto impietrito da queste parole pronunciate dalla bocca di un ragazzo, un po' più giovane di me. Non capivo se avevo deliri o era una cosa reale. Dissi che non avevo capito e se gentilmente poteva ripetere la cosa che aveva detto. E lui, tranquillamente e pacatamente, mi rispose “Non do’ da bere ai marocchini”. Non è facile riportare i mie vissuti e l'emozione che provai in quell'istante. La cosa sana che feci, senza farmi travolgere dall'onda emotiva dell'accaduto, fu quella di chiamare le Forze dell'Ordine.

Il resto dell’episodio è stato raccontato dalla Gazzetta di Reggio che, nel Maggio del 1990 ha riportato nella pagina di cronaca un articolo il cui titolo appare, a nostro avviso, come uno slogan poco originale : “Non do’ da bere ai marocchini”. Raccontandoci come quello del bar rappresenti solo uno dei tanti episodi di razzismo vissuti in prima persona, Barole si rammarica del fatto che gli immigrati continuino ad essere etichettati in modo negativo senza nessuna considerazione e soprattutto che il loro essere semplici uomini e donne venga completamente ignorato. Secondo l’autore la diffusione di manifesti politici quali ad esempio “Si alla polenta no al cous cous” e “Abbiamo fermato l’invasione” (Tali manifesti sono visibili al sito non fanno altro che fomentare forme di razzismo contribuendo alla creazione di una retorica sempre più popolare e disumana.
Nonostante sia da anni in Italia, Hamid Barole Abdu esibisce in modo fiero il suo essere africano non dimenticando il suo paese d’origine che è l’Eritrea. Coinvolto in numerose attività che vanno dalla letteratura al teatro, molte delle sue iniziative sono finalizzate alla ricostruzione del suo paese, tristemente noto per l’oppressione dittatoriale. In particolare meritano di essere citati tra gli altri, progetti come Scimmie Verdi, performance teatrale giocata su uno scambio di identità tra un italiano e un immigrato eritreo così come la visita ai campi profughi in Sudan nel 2004. In particolare, da questo viaggio Hamid Barole Abdu riporta con sé una promessa: scrivere un libro da dedicare ai ragazzi eritrei incontrati nei campi profughi. Con l’obiettivo dunque di avviare una raccolta per l’acquisto di materiale sanitario e scolastico, l’autore si è dedicato alla stesura del testo Seppellite la mia pelle in Africa (2006). Interamente bilingue in italiano e inglese, il testo comprende poesie ma anche brevi racconti.
Si tende all’interno di varie recensioni a sottolineare il fatto che autori come Barole siano allo stesso tempo intellettuali, giornalisti, insegnanti. Senza trascurare dunque il suo ruolo di scrittore e mediatore, è nostra intenzione presentare Hamid Barole in primis come persona, come uomo che prendendo coscienza di sentimenti come l’intolleranza e la discriminazione, ha deciso di testimoniare attraverso la scrittura il disagio di coloro che vengono considerati “diversi”. Quello che passa attraverso i racconti e le poesie di Hamid Barole è dunque il riconoscimento della differenza che vuole essere vista come ricchezza. Nel momento in cui l’autore afferma “La scintilla della sofferenza scatta in me nel momento in cui non trovo “spazio” per svolgere un ruolo attivo nella società” viene svelata l’incapacità dell’essere umano di accogliere il “diverso” per come è realmente così come l’esemplificazione di una nuova ed ulteriore subordinazione di cui la cultura postmoderna o postcoloniale sembra fregiarsi. Se da una lato teorici come Said e Bhabha considerano la letteratura come “veicolo” attraverso il quale poter rivisitare e decostruire quelle nozioni che non hanno fatto altro che relegare l’Oriente in uno spazio apparentemente immutabile, l’intenzione di Hamid Barole è quella di sfuggire ad un’omologazione sempre più pressante , di porre fine a quello spettacolo in cui burattini scimmiottanti sono ormai stanchi di recitare(In merito a questo aspetto si rimanda alla lettura della poesia “Un burattino ingrato” contenuta all’interno del testo Il volo di Mohammed 2010).
Sentendo profondamente come questo sia l’inizio di un cammino che ci porta verso la conoscenza e il riconoscimento dell’altro, vogliamo sperare che questo lavoro sia utile a sviluppare un’immagine positiva e soprattutto maggiormente rispettosa nei confronti dell’Africa e della sua gente.